Steve McCurry, quando un click
diventa un’opera d’arte

Intervista con il grande fotografo americano che racconta i suoi viaggi e le sue sfide.

È il 1984 a Nasir Bagh, un campo d’accoglienza profughi, un fotografo incontra lo sguardo spaventato di un’orfana di dodici anni. Lui è Steve McCurry, lei sarà per sempre la «Ragazza afgana», simbolo di un’adolescenza a cui è stata tolta la speranza. Reporter del «National Geographic» magazine, acclamato ogni volta che viene in Italia da folle di estimatori, vincitore di quattro World Press Photo, McCurry, 65 anni, oggi è una star della fotografia contemporanea. Nel suo ultimo libro «India» (Electa, pp. 207, euro 59) ha raccolto una selezione delle foto più belle realizzate in quel Paese in 35 anni di reportage. «L’India - racconta - è un Paese immenso dove i buddisti convivono con gli induisti, i musulmani con i cristiani ortodossi o i sikh. Dove si incrociano pellegrini e viaggiatori provenienti da svariate parti del mondo, ognuno alla ricerca di qualcosa. Tutto questo avviene, finora, senza grandi conflitti. È un fenomeno culturale incredibile, mi stupisce ogni volta che ritorno».

Ricorda qualche incontro particolare?

«Durante una tempesta di sabbia nel Rajasthan ho visto un gruppo di donne abbracciarsi per proteggersi. Mi è sembrata una situazione di solidarietà e amicizia. L’India è un Paese di paradossi, in cui il colore delle vesti di un monaco buddista si confonde con il rosso del cartellone pubblicitario della Coca Cola. È sempre più materialista, ha il mito di Bollywood eppure continui ad avvertire»

Lei è uno straordinario ritrattista. Come si avvicina al soggetto?

«Mi presento, metto le persone a loro agio, scambio qualche battuta, cerco di entrare in sintonia. Il fotoreportage insegna ad aspettare: nell’attesa il soggetto si libera delle paure, della timidezza, e acquista fiducia in te. Per esperienza, però, so che le foto migliori nascono all’improvviso, senza programmarle in anticipo».

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