Quando la scrittura era anche sentimento
Messa per ricordare monsignor Spada

Lunedì 2 dicembre alle 11 Messa per ricordare lo storico direttore de «L’Eco di Bergamo» nel 15° anniversario dalla sua scomparsa.

Nel tempo dei mostri sacri del giornalismo (Montanelli, Scalfari, Biagi, Bettiza, Bocca, per intenderci) sul proscenio della prosa incantavano i solisti, che facevano ballare le parole: talento, vitalità espressiva, identità eccentriche spesso spigolose da primedonne, caratteracci competitivi e indisponibili alla resa anagrafica, orgogliosamente consapevoli di stare dalla parte giusta del sapere.

Il primo violino

E monsignor Andrea Spada, che di quella stirpe senza eredi ne faceva parte, viveva il cruccio, se non la contraddizione, di farsi in due: il porsi come primo violino della scrittura, del pezzo d’arte, qualità che gli era stata data in dono dalla Provvidenza, e l’essere ciò che era diventato, il direttore d’orchestra.

Lunedì 2 dicembre alle 11, verrà ricordato in una Messa nel 15° anniversario della sua scomparsa (avvenuta il 1° dicembre 2004), presso la chiesa di Santa Maria Immacolata delle Grazie , in viale Papa Giovanni XXIII, 13, a Bergamo: verrà celebrata da mons. Arturo Bellini.

Non sempre la scrittura e il comando si tenevano per mano: l’estro creativo che dà forma allo spartito del racconto, nella passerella plaudente del volo pindarico, e per contro la fredda razionalità, talora il grigiore burocratico del mettere ordine nella quotidianità che tutto prendeva e tutto assorbiva. Quel giorno per giorno a volte plumbeo che, ammoniva, è il primo nemico in agguato del buon giornalismo. E usava il termine «sciatteria». Nell’osservare lo storico direttore de «L’Eco di Bergamo» quando s’aggiustava la sciarpa per disciplinarla meglio sull’abito scuro o si sistemava il «Borsalino», c’era nell’aria elettrica l’avvertenza, l’urgenza di togliergli quella polvere di tedio sottile ma resistente che ricopriva il suo agire ordinario, che non fosse quello dello scrivere, dandogli quasi un ritmo obbligato di cui voleva liberarsi per poter continuare a dialogare direttamente con i lettori attraverso il racconto dei fatti.

La buona battaglia

Se il giornalismo è stato il terreno su cui ha esercitato il magistero di sacerdote e di cittadino, per lui la scrittura era conflitto, la buona battaglia che andava combattuta in solitudine, un rito laico da consumare in modo esigente: una presenza muta, la sua, mentre la curiosità di tanti attendeva a opera conclusa. Lo scrivere, il bello scrivere per questo testimone di tante epoche, a volte scomodo negli anni del consenso ad un ordine costituito nel quale credeva e che aveva contribuito a realizzare e a difendere, era il compendio del «bel mestieraccio», per usare il felice timbro di Montanelli. In realtà Spada non scriveva: vergava, accarezzava, scolpiva immagini e atmosfere. Niente macchina per scrivere, soltanto il pennarello nero, la manualità artigianale di uno che s’arrangiava da solo fuori dagli schemi: una provocazione spiazzante. L’uomo di montagna che, nel rivendicare le proprie origini, si concedeva il vezzo snobistico (ma se lo poteva permettere) di ostentare il rifiuto del sostegno meccanico, la macchina per scrivere e i primi computer, per uno che pure era fulminato dai prodigi della tecnica, che era attratto dagli aerei e che, da ex cappellano militare, riandava con nostalgia ai suoi sommergibili durante la guerra. Qualche volta componeva, perché si trattava proprio di edificare, durante il mattino. Spesso alla sera, sistemandosi nella prima scrivania libera che trovava nella redazione Interni-Esteri, appoggiandovi bene i gomiti quasi a resistere, a tener duro in quel corpo a corpo con le idee, i sostantivi e gli aggettivi. Più i primi che i secondi, perché raccomandava sempre ai suoi giornalisti di ridurli, gli aggettivi. Gli piaceva osservare con disincanto la narrazione spoglia del primo foglio, perché la magia stava nell’indovinare l’attacco, foglio che poi appallottolava per riprenderne un altro nel segno di un’insoddisfazione che non si lasciava dominare.

Non scriveva di getto

Il primo schema veniva riconfezionato e ricamato in un crescendo di piccoli gesti, per distribuire gli scritti con premurosa cura sul bancone. Una distruzione creativa. Il direttore non scriveva di getto: invitata i redattori a fare così, ma riservava a sé questo piccolo privilegio, un angolo di ponderazione necessario. Diceva che gli articoli dovevano essere musica, sentiti come armonia, e se trovava il suo interlocutore spaesato per tale suggerimento, ripeteva il concetto e lo faceva rimbalzare sulle dita. Intendeva la scrittura come opera d’arte e la sua in effetti è stata una pennellata d’autore. L’articolo come «bel gesto» per come veniva apparecchiato ai più, con l’affetto che si dà alle creature fragili, curando anche l’estetica (e in fondo Spada era un esteta), che durano sì lo spazio di un mattino, ma che qualcosa sedimentano nel cuore e nelle menti.

Il culto della cronaca

Spada nutriva il culto della cronaca, il cuore pulsante di un giornale di provincia, la lady che non tradisce mai e che però va trattata secondo galateo: «Ricordatevi che poi i fatti entrano nelle case: non bussano, non chiedono permesso, ma infrangono la vita di famiglia. Quindi, valutate bene l’impatto delle notizie». Non amava la leggerezza dei pezzi spericolati (sciocchini, li definiva) o l’aridità dei tecnicismi, e guai alla retorica del lamento. Il suo scrivere arrotondato, scorrevole in quel vergare ordinato (per lui ogni cosa dentro e fuori il giornale doveva essere in ordine) si rifletteva in quella che era una sequenza di parole e concetti esposti in modo piano, semplice, diretto. «Non fare il sofista», rimbrottava chi scriveva in politichese. Nella stagione del «Corriere» imperante, Spada non è mai stato corrierista, anche se per un breve periodo ha accarezzato l’idea di volere i suoi giornalisti in giacca blu. Il suo modello per la cronaca era la «Stampa» di Giulio De Benedetti, direttore geniale e irripetibile, fatto alla sua maniera. Cronache asciutte, precise, senza fronzoli. Soprattutto precise. Da scalvino, esigeva la distinzione fra valanghe e slavine, piuttosto irraggiungibile ai profani. Il sottoscritto, dopo aver scambiato un nobiluomo di campagna per un contadino, finì sul libro dei reprobi, oggetto di un «editto». Chiamavamo così i fogli – per così dire – di sanzione firmati dal direttore e appesi in Cronaca, per poi tramutarsi in tristi scampoli gialli di una stagione eroica che fu. Gli errori servivano per crescere in un mestiere che, insisteva, si ruba: non è una cena di gala. Con il «Giornale» di Montanelli e con «Repubblica» di Scalfari il rapporto era di contrastata ammirazione. Gli piaceva, eccome, quel giornalismo affilato e di parte, spesso raffinato, sempre argomentato.

Montanelli e Scalfari

Ma non poteva dirlo più di tanto, se non altro perché i due grandi (più Scalfari di Montanelli) erano ostili al suo appeal democristiano e in fondo gli apparivano distanti dal suo sentire popolare da provincia profonda. Troppo elitari e borghesi, da bel mondo, per il suo modo d’essere. Di Scalfari diceva spesso, in bergamasco, che era «balos», espressione che scandiva non con acidità, ma con fare compiaciuto e con un sorriso malizioso. Di Montanelli era amico ed estimatore da sempre, sentimenti ricambiati da parte del grande Indro. In fondo i due si assomigliavano più di quanto Spada non volesse far credere.

Non tanto sul piano politico, perché la politica non ha assorbito oltre misura le energie intellettuali del direttore de «L’Eco», quanto a statura umana e professionale. Sul piano dei simboli in modo particolare, della passione intrigante per un certo genere di giornalismo da umanisti, e di una attitudine curvata sul costume: il gradevole tocco del ritrattista, della penna che sa dare dignità al particolare più minuto, togliendolo dall’oscurità dell’oblio. Nella ritrattistica Spada ha forse dato il meglio di sé: imbattibile, non c’era partita. Ma era con Enzo Bettiza, il Bettiza per palati raffinati, pellegrino critico nella Mitteleuropa comunista, condirettore del «Giornale» di Montanelli, che si compiva l’identificazione completa. Ogni articolo di Bettiza, che già allora aveva nobiltà letteraria, era per Spada un ristoro.

Piccoli e Spadolini

Se è nota l’amicizia fra il direttore e Flaminio Piccoli, uno dei leader democristiani, che si telefonavano tutte le mattine alle 7, meno conosciuto è invece il legame con Giovanni Spadolini, direttore del «Corriere», alla guida dei repubblicani e primo capo del governo laico. Spadolini, che era uno storico del Risorgimento (lo chiamavano il «vescovo laico»), quando veniva a Bergamo, e al termine dei suoi interventi firmava sempre per la platea l’ultimo suo libro, faceva poi consegnare una copia con dedica a Spada. Spadolini veniva anche al giornale e, cosciente di essere un’affermata intelligenza prestata al giornalismo, era contento di trovarsi a fianco di una personalità che riteneva del suo rango culturale e in un ambiente amichevole.

Spada è stato tutto questo e molto altro, evidentemente, lasciando un notevole patrimonio di scritti. E pare ancora di vederlo, all’ultimo miglio del viale del tramonto, sostare con passo lieve in redazione, lui così votato alla pienezza dell’autorità e al giganteggiare combattivo, il riassunto di una grande storia vissuta con passione e alla quale aveva dato del tu. Pirotecnici e formidabili quegli anni, trincea per umori guasconi, allevati da un condottiero magistrale.

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