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Mercoledì 04 Marzo 2015
Pistelli: «Dobbiamo aiutare i libici
per contrastare gli orrori dell’Isis»
Bisogna aiutare i libici a riprendersi in mano il loro futuro: lo afferma in questa intervista il viceministro degli Esteri Lapo Pistelli, che stasera a Bergamo, alla Casa del giovane (ore 21), interviene, con Paolo Magri direttore dell’Ispi di Milano, sul ruolo dell’Italia negli scenari globali.
C’è un timore diffuso, cioè che la Libia possa diventare la porta strategica dell’Isis sul Mediterraneo. «È difficile dire che è possibile scacciare un timore, un sentimento cioè, specie dopo le azioni orrende e inumane di Isis e la campagna mediatica che le ha accompagnate. Ma lavoriamo esattamente per questo: aiutare i Paesi arabi a contenere e sconfiggere Isis sul terreno, svelare la mistificazione di una lettura ideologica e totalitaria dell’Islam come quella di Isis. Più vicino a noi, ci spendiamo per aiutare i libici a riprendersi in mano il loro futuro, senza divenire un campo di battaglia supplementare del Califfato».
Si sostiene che la Libia è un problema europeo, tuttavia è difficile rintracciare una politica mediterranea. «La Libia è un problema europeo, ma è ovvio che l’Italia senta questa crisi in modo più acuto di altri. L’Europa ha provato più volte a darsi una politica mediterranea, fin dagli anni ‘90, con il “processo di Barcellona”. Prima è rimasta intrappolata nelle contraddizioni del mancato processo di pace fra Israele e Palestina, poi ha tentato un rilancio con le politiche di vicinato, “condividere tutto fuorchè le istituzioni”. Poi però è arrivata la “primavera araba”: quelle trasformazioni – alcune positive, altre no – ci hanno colti colpevolmente impreparati. Agire sotto stress, oggi, è più difficile, ma non abbiamo scelta. Prima era una politica, ora è una necessità».
L’esempio ricorrente è il dramma immigrati. «Non è scontato che i numeri aumentino, ma è importante che la risposta di Frontex e Triton sia europea, non solo italiana. Bisogna essere onesti: il numero dei migranti, dei profughi, dei richiedenti asilo aumenta ogni anno nel mondo a causa dell’instabilità, delle crisi, e anche dei potenziali vantaggi della globalizzazione. Contenere le crisi, stabilizzare i Paesi fragili ridurrebbe il numero di profughi e asilanti. Parliamo di persone che scappano, non di viaggiatori. Quanto alle migrazioni, occorre gestire il fenomeno assieme ai Paesi di origine e di transito, rafforzando i canali della migrazione regolare per sconfiggere quella irregolare e i trafficanti che ne profittano. Abbiamo iniziato questo percorso, totalmente nuovo, sia con i governi dell’Africa Occidentale che con quelli del Corno d’Africa. Ma occorre pazienza. Nel frattempo, soffiare sul fuoco della paura o del populismo non serve a nessuno».
A che punto siamo del conflitto tra le varie fazioni? «Ci vorrebbe un libro! La Libia è divisa da numerose fratture, secondo le definizioni che ne danno gli stessi protagonisti: islamisti e musulmani, rivoluzionari e controrivoluzionari, per non menzionare le appartenenze tribali, quelle territoriali, le diverse milizie di città. Nessuna delle due principali fazioni potrà mai prevalere militarmente, non esiste “vittoria finale”. Perciò nessuna avanzata, nessuna ritirata è davvero strategica. I libici devono sedersi a un medesimo tavolo e semmai allontanare combattenti stranieri di ogni genere e i Paesi che li sostengono».
Il capo della polizia, Alessandro Pansa, ha detto in questi giorni che «i rischi per l’Italia sono più accentuati»: c’è un nesso fra i crimini di Parigi e Copenaghen e l’avanzata dell’Isis in Libia? «I rischi sono direttamente proporzionali all’aumento dell’instabilità. Però non vedo alcun nesso di causa-effetto tra questi fatti, semmai un clima generale che spinge cellule dormienti a svegliarsi e “lupi solitari” a colpire. I servizi di intelligence vanno coordinati in modo ancora più stringente, ma ogni minaccia ha la sua risposta».
La via diplomatica scelta è quella del dialogo, ma dialogare con chi? Quali sono i margini di manovra, visto che la missione dell’inviato dell’Onu, Bernardino Leòn, non ha dato esiti positivi? «Il dialogo promosso da Leòn è invece progredito, pur fra molte difficoltà. La diplomazia si fa con chi c’è; la pace si fa tra nemici, la mediazione è necessaria quando si parte da posizioni distanti. Altrimenti sarebbe troppo facile: con gli amici si va al cinema e a mangiare la pizza. Spero che questo ci faccia riapprezzare la straordinaria storia dell’integrazione europea, che ha sradicato dalla testa delle giovani generazioni, nell’Ue almeno, pur con tutti i dissensi politici possibili, l’idea della guerra: ormai è un concetto rottamato culturalmente».
L’impressione è che nell’area mediorientale sia in corso una folle pulizia etnica, che vede fra le vittime anche i cristiani: c’è l’esatta percezione di queste tragedie? «C’è una reazione emotiva di orrore quando ascoltiamo le notizie di cronaca e gli atti efferati che là accadono, ma credo che sia insufficiente la percezione della dimensione “ideologica” della minaccia totalitaria di Isis. Fino all’estate scorsa molti pensavano che fosse una “disputa fra arabi” e che perciò non meritasse attenzione, una valutazione cinica ed errata. Ogni “diversità” è a rischio con Isis, quella dei cristiani, degli assiri, degli yazidi, così come quella dei musulmani sciiti. Questa è una guerra di identità mai sperimentata con questa intensità nel mondo arabo. Ritengo che noi possiamo aiutare, ma gli islamisti totalitari di Isis verranno sconfitti solo dai musulmani che rifiutano il ritorno a un orribile medioevo».
Cosa dobbiamo imparare dal vuoto lasciato dal regime di Gheddafi e dalla guerra allestita per abbattere il Colonnello? «È facile oggi modificare la memoria di quell’anno, ma occorre ricordare che il Colonnello minacciava di “sterminare, casa per casa, i ratti di Bengasi”. Fu il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ad autorizzare l’intervento. Furono mesi incredibili, con il domino di autocrati che cadevano l’uno dopo l’altro. Però capisco il punto più generale della domanda: in Medio Oriente è sbagliato muovere la prima mossa se non si ha chiaro un pensiero strategico che prevede anche la seconda e la terza. Invece di una partita a scacchi, si rischia di giocare al vaso di Pandora».
Franco Cattaneo
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