Cultura e Spettacoli / Valle Seriana
Sabato 27 Gennaio 2018
La fuga di Alice dai nazisti
«Così tutta Gromo ci aiutò»
Sabato sera a Nembro per il Giorno della Memoria si rievoca il dramma degli Schwamenthal. Dall’odissea degli spostamenti in Val Seriana all’arrivo definitivo a Bergamo
Una famiglia di ebrei austriaci finita, attraverso mille peripezie, in alta Val Seriana, nella zona di Ardesio, dove si salva, dalle retate dei nazifascisti, grazie alla solidarietà della comunità locale. Una storia che suona, oggi, quasi incredibile: avventurosa, piena di paura, pericoli, stratagemmi, spostamenti e fughe continue. Ma ricca, anche, di vitalità. Perché Alice Redlich, la giovane sposa e madre della famiglia Schwamenthal, nel 1944, pur avendo già al seguito un figlio piccolo, partorisce, tra infiniti disagi e traversìe, una bambina: Liliana.
La storia di questa famiglia ebraica, testimoniata da Enzo Valenti su L’Eco del 25 gennaio, merita un approfondimento. È descritta nell’opuscolo «Alice racconta», intervista che il figlio, Riccardo Schwamenthal, ha fatto alla madre Alice il 14 e 15 agosto 1986. Molte cose ricorda anche Teresa, moglie di Riccardo, scomparso un anno e mezzo fa, che proporrà un ricordo del marito e della sua famiglia sabato 27 gennaio alle 20,45 al termine dell’incontro «Fare memoria per costruire la pace e difendere la democrazia», con Anna Rosa Nannetti, Simonetta Soldani, Vittorino Lauria (nella Sala Raffaelli della biblioteca Centro cultura di Nembro).
Alice nasce nel 1908 a Vienna, da madre ungherese, Ilona Hungar, e padre austriaco, Riccardo Redlich. Rimasta orfana di padre a soli 12 anni, nel 1932 sposa, a Vienna, Leiser Schwamenthal. Nel 1937 nasce il figlio Riccardo. La famiglia ha «un negozio di cioccolato, caramelle e dolciumi». Con avvento del nazismo e l’Anschluss (1938), il negozio viene requisito. «Un giorno ci hanno trovato dentro altre persone che sostenevano di essere diventati loro i proprietari», racconta Teresa. Alla fine, gli Schwamental sono costretti a scappare «per paura di perdere la vita». L’unico Paese, stranamente, dove c’è la possibilità di andare senza visto, è l’Italia fascista. «Se ci si arrivava in aereo non ce n’era bisogno, era sufficiente un passaporto valido», ricorderà Alice. Due giorni prima della scadenza del documento, la donna parte con il figlio Riccardo, che ha 14, 15 mesi.
Prima della partenza la madre deve togliere al bambino «pannolino, scarpe e calze, per far vedere che non c’era nascosto niente». Alice decide di andare a vivere a Milano, dove vivono le sue zie. Dopo la promulgazione delle leggi razziali, settembre 1938, che intimavano l’espulsione degli ebrei entro sei mesi, gli italiani, ricordava Alice nell’intervista, «lasciavano venire in Italia solo di passaggio, ci voleva un biglietto di sola andata: l’unico posto in cui si poteva andare era Shanghai».
Ma anche per andare là c’erano già difficoltà, siamo rimasti in Italia con la paura di cosa sarebbe successo il 21 marzo». Il 21 marzo non succede nulla: «È stato tipicamente italiano che non ci hanno fatto niente, né le autorità, né i privati. Non è successo niente». Le cose cambiano con la guerra.
Nel luglio del 1940 Leiser viene portato a San Vittore, dove resta 8, 10 giorni («lasciavano aperte le porte e li trattavano molto bene»), poi nel campo di internamento di Campagna, vicino a Eboli. Un giorno, mentre Alice è ancora a Milano con la madre Ilona e il piccolo Riccardo, «sono venuti a casa con un documento per riportare mia madre», la sola con passaporto austriaco, «in Germania, perché l’Austria non esisteva più». Alice va a Roma, al Ministero degli Esteri, a parlare «con una certa persona». Risultato: tutta la famiglia viene mandata nel campo di Ferramonti di Tarsia, in Calabria. Lì, l’atmosfera è piuttosto serena («abbiamo fatto subito amicizia con quelli della milizia, la vita nel campo era organizzata abbastanza bene«).
Pio XII ottiene che i nuclei famigliari «vengano mandati in altri posti come confinati». Gli Schwamenthal finiscono a Trescore Balneario, poi a Clusone. Qui gli ebrei danno fastidio ad alcune personalità del luogo, così vengono trasferiti a Gromo, dove «la popolazione era molto gentile e comprensiva verso di noi». La relativa tranquillità dura poco, arriva l’8 settembre: «cominciavamo ad avere una gran paura dei tedeschi». Gli Schwamenthal riparano a Botto Alto, «due case sopra Ardesio»: «un posto pieno di mosche, sporco» dove si sta «molto, molto male».
Alice è già in attesa di Liliana. Temporaneo ritorno a Gromo, decisione di fuggire di nuovo. «Il primo dicembre del ’43», maresciallo e appuntato dei carabinieri comunicano ad Alice che la famiglia deve essere portata a Bergamo. Il bambino è a scuola, a prenderlo vanno mamma, nonna e appuntato: «Quando sono entrata ho detto alla maestra, una signora anziana di cui non ricordo il nome, di che cosa si trattava e a lei sono venute le lacrime agli occhi e ha detto: “Io sono fascista, ma queste cose sono molto brutte, non si dovrebbero fare”».
Alice riesce a fuggire ancora, evadendo il controllo del carabiniere. Inizia un’odissea di spostamenti in Alta Valle Seriana. In una specie di stalla mette al mondo Liliana e poi riuscirà a salvare la vita sua e della famiglia grazie all’aiuto di tanti abitanti del posto, da un adolescente che fa loro da guida, all’ostetrica che la assiste nel parto. Dopo la Liberazione la famiglia si trasferisce a Bergamo. Qui Alice «fu stimata e benvoluta per lunghi anni fino alla morte, avvenuta nel 1991».
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