Il mago Oronzo al Teatro Creberg:
«Ora il comico parla e basta, che noia»

“Hocus molto pocus”, ovvero la magia di un autoironico vorrei-ma-non-posso. L'antimagia comica. L'affettuoso omaggio al mondo straccione e sublime dei clown, dei prestidigitatori, dei ciarlatani da strada. È tutto questo lo spettacolo di Raul Cremona, di ritorno a sabato sera al Bergamo Teatro Creberg.

È l'occasione per rivedere il repertorio del 53enne comico milanese, riveduto e corretto. Ma anche per coglierne la radice: la prestidigitazione e lo spettacolo popolare, il mondo degli scarpinanti e degli attori di strada, il fascino della grande illusione di matrice otto-novecentesca e lo strato più profondo del teatro italiano.

L'Eco di Bergamo lo ha intervistato. La magia, i ciarlatani, il buffone: nel suo cabaret c'è sempre il ricordo di quell'arte “bassa” da cui proviene lo strato più autentico e popolare del nostro teatro. Perché? “L'ha detto lei, perché veniamo tutti da lì. È questione di esserne consapevoli. Per me è un fatto anche famigliare, perché mio nonno era un imbonitore di strada: certe immagini, una certa Milano popolare che non esiste più, un certo modo di porsi appartengono alla mia storia personale. E poi c'è la magia: un fascino che ho avvertito fin da ragazzino, che mi sono portato dietro quando ho iniziato a fare teatro”.

Anche se ha virato sulla parodia come Mago Oronzo o sull'omaggio alla prestidigitazione “alta” con Silvano. “In Italia non c'era più posto, a differenza che in altri paesi, per uno spettacolo di prestidigitazione "pura". Questione di cultura, di rispetto, di snobismo, di atteggiamento da ricchi con la puzza al naso. Tante cose. Il risultato è che i giovani talenti che vogliono seguire il modello della prestidigitazione alta devono emigrare, senza alternativa. Diversa è la strada che abbiamo imboccato io o altri come Mago Forest o Bustric: non è questione di fare la parodia alla teatralità alta, ma di cogliere con gli strumenti della clownerie moderna l'ambivalenza di ogni prestidigitatore, da sempre sospeso tra l'alto e il basso, il divino e l'umano, l'arte e la ciarlataneria”.

Ha parlato di clownerie: per tutta la sua generazione è stata una grande palestra. Cosa vi insegnava? “Negli anni '70 a Milano arrivavano o lavoravano artisti come Jango Edwards, Bolek Polivka, Leo Bassi e tanti altri. Il clima era quello. Tutta la mia generazione di comici è nata sapendo che non bastava mettersi davanti a un microfono e parlare. Occorreva saper lavorare nello spazio, inventare un'immagine, stabilire un rapporto con gli oggetti, arricchire il proprio bagaglio mimico e corporeo. Qui si torna alla magia: nel repertorio del prestigiatore c'è qualcosa che i comici più giovani non hanno più: il rapporto con gli oggetti, lo stupore della relazione con il pubblico. Da noi ormai il comico è quello che parla e basta, che noia".

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