I settant’anni di Eric Clapton
È tra i grandi del rock - Video

Di quella straordinaria generazione di chitarristi inglesi nati nella prima metà degli anni '40, che ha posto le basi del rock moderno fondando di fatto la figura del «guitar hero», Eric Clapton, che proprio oggi, lunedì 30 marzo, compirà 70 anni, è forse l'unico riuscito a raggiungere uno status di concertista al di sopra di ogni categoria.

La naturalezza con cui Clapton passa dall'adorato blues di Robert Johnson alla musica indiana di Ravi Shankar (come accaduto per il concerto omaggio al suo grande amico George Harrison) al jazz con Wynton Marsalis senza mai perdere nulla della sua naturalezza e della sua comunicativa ha pochi eguali.

Clapton, che celebra i suoi 70 anni con la pubblicazione con «Forever Man», un cofanetto antologico con 51 tracce che coprono 30 anni di carriera, è una leggenda ma è riuscito a mantenere una grande freschezza di idee anche se, nel giugno 2014, ha dichiarato da Uncut di essere stanco dei viaggi e dei ritmi delle tournée.

«Ci sono un sacco di cose che vorrei ancora fare, ma sto pensando anche alla pensione. Penso di potermi permettere ancora di registrare ma non voglio diventare imbarazzante sul palco - ha detto - la mia vera battaglia sono i viaggi se potessi solo suonare nei paraggi, potrei anche andare avanti».

Se prendesse questa decisione sarebbe veramente un peccato perché ha raggiunto un livello che trascende la sua storia ed è diventato anche un cantante impeccabile. A ben vedere, la sua è la storia di un individualista insofferente alla vita nella band che ha alle spalle esperienza decisive per l'evoluzione del rock: l'inizio folgorante con i Bluesbreakes di John Mayall (il mai troppo lodato mentore della storia del rock blues inglese), gli Yardbirds, la gloriosa quanto tempestosa vicenda con i Cream, la prima super band della storia, i Blind Faith, Delaney & Bonnie, Derek & The Dominos (dove incontrò Duane Allman) sono tutte esperienze durate poco.

Non è un mica un caso che rispose no all'offerta di entrare nei Beatles quando Harrison se n'era andato: era troppo amico di George (che nel frattempo era rientrato) e, come racconta lui stesso in uno degli splendidi Dvd «Beatles Anthology» non era fatto per suonare in una band. Però non molto tempo dopo accettò di far parte del gruppo che suona nel primo album della Plastic Ono Band di John Lennon e Yoko Ono.

Al pari dei suoi colleghi coetanei, anche lui ha alle spalle qualche disastro esistenziale: la scoperta di essere stato cresciuto dai nonni e non dai genitori, che quella che era accanto a lui era la madre e non la sorella, il padre mai conosciuto, la droga e l'alcolismo che l'avevano praticamente portato lontano dalla musica, il rimorso di essersi innamorato della moglie di George Harrison (proprio questa vicenda ha ispirato «Layla», uno dei suoi capolavori).

Da tutto questo ne è uscito felicemente imboccando la strada che lo ha portato fino ai nostri giorni, passando anche per la tragedia della morte assurda di Connor, il figlio avuto da Lori Del Santo, precipitato dalla finestra di un grattacielo. Da quella esperienza è scaturito «Tears In Heaven», uno dei titoli più famosi del suo repertorio. Nel frattempo ad Antigua ha fondato una clinica per il rehab chiamata Crossroads, come il capolavoro di Robert Johnson e il festival che ogni anno organizza chiamando i migliori chitarristi del pianeta.

A quel festival ha invitato anche il suo amico Pino Daniele, cui ha dedicato un brano, «Pino 5», in occasione della morte del musicista napoletano. Nonostante si fossero lasciati a colpi di minacce di morte, ha vissuto in modo serafico la reunion dei Cream (certamente Ginger Baker e Jack Bruce ne avevano più bisogno di lui) per quattro concerti nel 2005 alla Royal Albert Hall di Londra.

Lo chiamano da sempre «Slowhand» per la fluidità dello stile e la chiarezza del fraseggio, il suo nome è da decenni un sinonimo di chitarrista virtuoso, il suo aplomb così British e la sua musica sono quanto di più lontano dall'idea di pensione si possa immaginare.

Paolo Biamonte

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