Un «amore sublime»tra la vita e la morte

Un appassionato monologo a due voci. O, se preferite, un intenso dialogo a una voce. Paradossi dell’amore sublime. Lei, Sara, studentessa vicina alla laurea, in coma dopo una crisi d’asma più cruenta del solito. Lui, Pietro, assistente universitario di Lettere, drammaticamente impegnato a tenerla in vita, attraverso la terapia della parola. Ma è proprio sulla soglia dei sentimenti che, a volte, si vede tutto più chiaro. Ed è appunto sulla soglia tra la vita e la morte di Sara che Pietro ripercorre, giorno dopo giorno (tredici in tutto, uno per capitolo), la loro storia di amore. Una storia che diventa progressivamente più forte, nitida, purificata dall’attesa di un ritorno alla vita sempre più improbabile.
Parte da un episodio realmente accaduto, questo romanzo di Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de «Il Giornale», noto al pubblico de «l’Eco» per avere firmato la fortunata rubrica domenicale «Tornando a casa». Parte, si diceva, da un fatto di cronaca e poi «viaggia liberamente lungo gli itinerari della fantasia», come avverte lo stesso autore. Un romanzo vero, dunque, dove il contesto drammatico (il coma, il letto d’ospedale, il rapporto con i medici), è soltanto la cornice o, se vogliamo, l’inusuale espediente letterario per raccontarci un format dell’amore che è quanto di più anti-televisivo si possa immaginare. Anzi, se qualcuno fortemente sovraesposto alla bassa macelleria dei sentimenti in stile Maria De Filippi, decidesse di iniziare a curarsi, potrebbe partire dalla lettura de «L’amore sublime» (Prima Pagina Edizioni, pp. 160, euro 15). Un’ottima terapia disintossicante. Un’idea dell’amore fuori dal tempo, dunque? Per dirla in modo chiaro e più brutale: un’idea dell’amore un po’ pallosa? Dipende dai punti di vista. Come direbbe il Papa chi non pecca non è necessariamente noioso. Allo stesso modo chi prova a volersi bene in senso pieno, sottraendosi alla logica dell’amore usa e getta, non è necessariamente palloso. Certo è una prospettiva coraggiosa, come a suo modo coraggiosa era stata «La grande Idea», prima fatica letteraria di Gatti, dove la penna brillante dell’inviato aveva scelto di farsi scarna ed essenziale, per cedere il passo ai personaggi di un’Italia minore (ma straordinariamente vitale) incontrati nel suo peregrinare in giro per il Belpaese. Qui il registro cambia decisamente, la penna del narratore arriva come un bisturi – un bisturi fermo e delicato – al cuore dei sentimenti. Se l’intervento sia riuscito, giudicherà il lettore, in base alla sua sensibilità. A noi è risultato intrigante addentrarci una pagina via l’altra e scoprire che si possono scambiare emozioni fortissime con la donna che ami anche se lei tace inesorabilmente. Anche se (capitolo «Il primo giorno») «non è facile stare qui a contemplare questo tuo corpo inerme, trafitto da aghi e tubi di plastica, come un manichino per lezioni simulate in un’aula d’università. No che non è facile: è una tortura immane. Adesso questo corpo mi dà brividi di morte, fino a poco tempo fa mi dava poesia ed estasi, piacere e sogno. Era pace e consolazione. Era la mia stessa ragione di vivere». Eppure, come profetizza il professor Barbieri («Il quarto giorno»), raro esempio di medico con il cuore che pulsa sotto il camice: «Le parli, le parli in continuazione. Farà bene a Sara, perché questa al momento resta l’unica terapia possibile. Ma farà bene anche a lei, che comunque continuerà la sua storia d’amore, forse assaporandola come non l’ha assaporata mai». Così è sorprendente scoprire che si può perfino rievocare, al «Sesto giorno», la prima volta di Sara e Pietro con parole lievi, senza occhieggiare al lettore e indugiare nei dettagli. E all’«Ottavo giorno» imbattersi nel contromanuale dell’amore perfetto, che mette in discussione molti capisaldi della vulgata (letteraria e non) più diffusa rivalutando «alcuni termini che nel ramo sentimenti solitamente sono usati come il peggio del dispregiativo». Un paio tra i tanti. L’abitudine. «Sì, voglio gridarlo forte – teorizzò un giorno Sara –, voglio fondare un’associazione per divulgarlo sui libri e sui giornali: viva l’impagabile calore dell’abitudine… I nostri ritmi, i nostri codici di comunicazione, i nostri segreti: è come muoversi senza paura in una stanza buia, o ad occhi chiusi, sapendo tranquillamente e precisamente dov’è quello che serve». La stima. Sara si lancia in un’invettiva: «Quando un uomo o una donna non ama più il compagno, dice proprio così: ormai c’è solo stima. Bestemmia, somma bestemmia. Vorrei prenderli a schiaffi, questi signori. Ne prenderei uno alla volta, gli chiuderei la testa in una morsa d’officina, poi gli direi a quattr’occhi: imbecille, usi i termini al contrario. Analfabeta. Ignorante. Sai qual è la verità? La verità è che tu non la ami più proprio per il motivo opposto: perché non c’è più la stima». Di pagina in pagina prende forma il vissuto di Sara e Pietro, un vibrante confronto morale e letterario sdrammatizzato da dosi abbondanti di sarcasmo e di salutare autoironia. Succede allora che si possa costruire un’invidiabile complicità – si tengano forte i teledipendenti da reality – sul gioco dei libri: per ogni tema il romanzo preferito. Da Goethe a Tolstoj, da Buzzati a Silone, da Uhlman a Tolkien il divertissement occupa un intero capitolo («L’undicesimo giorno»). Siamo all’epilogo. Non crediamo di rovinare il finale svelando al lettore che il cuore di Sara cessa definitivamente di battere. Il distacco ha un lampo di drammaticità, di dolore sordo e rabbioso (ultimo capitolo, dopo «Il tredicesimo giorno»). Poi il senso di gratitudine prende il sopravvento. Dice Pietro: «Dopo queste due settimane al tuo fianco, ho ancora più chiaro quanto fosse bello e grande il nostro amore semplice… Senza sapere perché, ci siamo concessi reciprocamente il privilegio più grande: sognare un futuro». Non resta allora che affidare Sara a Dio, in una preghiera finale che è anche l’ultima dichiarazione di amore «a una donna qualunque, la migliore di tutte». Ma niente finisce qui. L’amore sublime non ha bisogno del lieto fine.Fabio Finazzi

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