Bergamo Jazz, ultime note:
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«Bergamo Jazz 2010» chiude i battenti: l'atteso concerto al Donizetti di Omar Sosa con l'Afreecanos Quintet e la musica del San Francisco Jazz Collective scrivono la parola fine sulla tre giorni di musica che ha richiamato migliaia di appassionati a Bergamo.

Omar Sosa, pianista cubano, è stato intervistato da L'Eco di Bergamo a proposito proprio della scuola pianistica cubana.

Esiste questa scuola?
«Io credo di sì. Nell'evoluzione della storia della musica cubana abbiamo avuto grandi pianisti come Lilí Martínez, Pedro Peruchín Justiz, Rubén González e poi Bebo Valdés, che è ancora vivo ed è il padre di Chucho. Molto importante per i pianisti cubani è anche Ernesto Lecuona, che ha individuato un percorso originale nell'ambito della musica per pianoforte classica contemporanea. È un onore essere parte della scuola pianistica cubana, visto che mi ritengo un percussionista al quale piace suonare il piano».

Qualcuno le attribuisce il merito di realizzare una musica complessa ma che è facile apprezzare. Che cosa pensa di questa valutazione?
«Io semplicemente traduco un messaggio che viene dal mondo ancestrale nel quale mi muovo. Io traduco la musica che ascolto. Per alcuni è complessa, per altri no, forse perché capiscono da dove viene. È una musica libera e questa libertà, unita all'interazione tra i musicisti, la rende accessibile alla gente».

Quanto è importante per la sua ispirazione artistica la «santería» cubana, il legame tradizionale con gli antenati?
«La "santería" mi ha permesso di riconoscere con chiarezza la tradizione afrocubana nella quale mi muovo. Ciò ha fatto sì che ogni pezzo che compongo "sappia" di Africa, di tradizione, di terra».

Ha detto in alcune interviste che la sua non è musica jazz, ma neppure latin jazz. E non è musica africana. Reputa la sua musica più vicina alla musica classica o alla musica popolare?

«Credo che la mia musica si avvicini di più alla musica popolare, ma la domanda è: a quale musica popolare? Tutte le volte che mi fanno questa domanda dico che la musica che faccio è una musica della terra. Credo che sia una musica con radici in Africa: infatti presenterò un gruppo formato da un bassista mozambicano, tre musicisti cubani e una cantante del Mali. Non si tratta però della musica africana che si associa a determinati generi, bensì di una musica che assorbe un po' di tutto e che rispecchia quello che sono io, un emigrante che ha vissuto in quattro Paesi. Ed è una musica basata totalmente sulla libertà. L'elemento fondamentale è che ogni componente del gruppo esprima la propria cultura in modo aperto e libero».

Quanto sono stati importanti il film di Wim Wenders dedicato ai musicisti cubani e il disco «Buena Vista Social Club»?
«È come se si fosse rotto un blocco musicale e infatti, da quel momento, la musica cubana degli anni '40, '50 e '60 è stata ascoltata come una musica nuova. È come l'immagine di una colomba che ha sempre cercato di volare senza poterlo fare e poi all'improvviso spicca il volo. Oggi non c'è persona che non associ Cuba a Buena Vista».

Non è forse semplice capire il ruolo che ha avuto il gruppo Irakere sui musicisti cubani. Che cosa ha rappresentato per lei?
«Per i musicisti della mia generazione Irakere fu come la rivelazione che si poteva fare qualcosa di diverso. La musica di Buena Vista ha preceduto quella di Irakere, il gruppo che ci ha dato l'opportunità di poter ascoltare una musica nuova. Irakere ha presentato una nuova visione della musica cubana negli anni '70 e '80. Il mio ultimo disco, Ceremony, lo dedico proprio a Chucho Valdés e a Irakere, perché sono stati gli ispiratori della musica che faccio oggi, quelli che ci hanno dato la possibilità di ascoltare un'altra musica e di vedere un'altra strada».

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