Cronaca / Bergamo Città
Giovedì 07 Febbraio 2019
Trent’anni fa il disastro aereo delle Azzorre
Morirono 20 bergamaschi - Foto e video
La sciagura delle Azzorre. Boeing 707 decollato da Orio al Serio si schiantò su una collina. Morirono 144 persone. I familiari delle vittime: «Dal nostro dolore nate storie di amicizia».
In fondo domani saranno «solo» trent’anni, ma dalla sciagura aerea delle Azzorre in cui persero la vita 144 persone (20 i bergamaschi) sembra trascorso un secolo. Orio al Serio contava 130 mila passeggeri all’anno, cento volte meno dei 13 milioni di oggi. Viaggiare era cosa da ricchi, il low cost nemmeno per visionari. Se nel 1989 fossero esistiti smartphone e social network, i familiari dei 137 passeggeri e dei 7 membri dell’equipaggio, tutti morti nell’incidente, avrebbero saputo della disgrazia in tempo reale. «Invece venimmo a saperlo poco per volta», ricorda Sabrina Tosini, che all’epoca aveva 16 anni e su quell’aereo perse la madre, Elisabetta Vedovi. «Chiamò a casa l’agenzia di viaggi, al telefono risposi io. Capendo che ero soltanto una ragazzina, l’agente si fece scrupolo e non mi disse nulla. Venni a sapere del disastro qualche ora dopo, da una vicina di casa». Il tempo è passato, il dolore è rimasto.
Orio al Serio, 8 febbraio 1989, ore 11. Il boeing 707 della Independent Air di Atlanta è sulla pista di Orio pronto a decollare, destinazione Santo Domingo. Per tutti doveva essere una vacanza. E quello sull’isola di Santa Maria delle Azzorre doveva essere solo uno scalo tecnico per il rifornimento. Alle 14, invece, l’aereo si schianta sulla collina del Pico Alto, l’unica altura (si fa per dire: 547 metri) dell’isola. L’impatto sparge i rottami del velivolo e i resti dei passeggeri tutt’intorno, nella folta vegetazione della collina.
«Avevo 25 anni – ricorda Patrizia Bernardelli, di Osio Sotto – e una bambina di cinque, Francesca. Su quell’aereo viaggiava mio padre Norberto, che ne aveva 46». Da subito Patrizia fu tra i più attivi nell’invocare risposte da parte delle autorità sulle ragioni della sciagura e nel tener viva la memoria di chi viaggiava su quell’aereo. «Fino ad allora – ricorda – la mia principale preoccupazione era scegliere il posto in cui andare a ballare con le amiche il sabato sera. Non avrei mai pensato di trovarmi, tutt’a un tratto, a impegnarmi in qualcosa di molto più serio, come dover noleggiare un charter per le Azzorre». Si riferisce all’aereo che noleggiò davvero, nel ’93, quattro anni dopo la tragedia, per portare tutti i familiari delle vittime e le autorità cittadine sull’isola di Santa Maria, all’inaugurazione di un monumento alla memoria. «Staccai a mio nome due assegni da 75 milioni di lire. Erano scoperti – sorride Patrizia – ma la banca chiuse un occhio, permettendomi di recuperare le quote di iscrizione dai partecipanti. Aderirono tutti». Come a volte accade, il comune dolore fece nascere anche buone amicizie: «Oggi noi siamo come sorelle», dicono Patrizia e Sabrina.
I familiari si batterono perché si facesse luce sulle cause del disastro. La verità col tempo arrivò. L’inchiesta stabilì che l’aereo finì sulla collina per tre ragioni: la nebbia che quel giorno avvolgeva il Pico Alto; l’errata taratura dell’altimetro di bordo; il sovrapporsi delle voci tra equipaggio e torre durante le comunicazioni radio in fase di atterraggio. Mentre l’aeroporto di Santa Maria comunicava di tenere una quota di 3 mila piedi, il pilota ne confermava 2 mila.
Agli occhi dei soccorritori (anche una squadra di vigili del fuoco da Roma, la cui esperienza è raccontata nel libro di Alessandro Mella «Oltre ogni confine» edito dal ministero dell’Interno) si aprì uno scenario apocalittico. Negli occhi dei bergamaschi, invece, resta indelebile l’immagine della distesa di bare allineate nell’hangar di Orio, per il triste rito del riconoscimento. «Pochi passeggeri avevano i documenti addosso – ricorda Sabrina Tosini – sulla maggior parte delle bare c’era scritto solo “donna bionda” o “uomo con la barba”». C’è chi prima di arrivare a riconoscere il suo caro ha dovuto dare due o tre opzioni».
Cecilia Giampaoli, di Pesaro, oggi ha 36 anni ed è docente di Grafica d’arte all’Istituto superiore per le industrie artistiche di Urbino. All’epoca del disastro aereo di anni ne aveva 6 e perse il padre, Giuliano. «Da bambina di fronte a un lutto simile scattano meccanismi di autodifesa che ti fanno andare avanti . A un certo punto della mia vita, però, ho voluto far i conti con questa storia. Così, nel 2014, mi sono recata nelle Azzorre. Ci sono rimasta un mese. Da quell’esperienza sta nascendo un prodotto audiovisivo, che racconta la vicenda. I ricordi che ho di mio padre? Sono pochi. Per questo – conclude – sono molto preziosi».
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