Cronaca / Bergamo Città
Domenica 05 Febbraio 2017
Migranti se l’europa
inverte la rotta
Dunque l’Europa ha ritrovato unità d’intenti nella gestione delle migrazioni. L’appoggio dell’Unione all’accordo italo-libico per chiudere la rotta del Mediterraneo centrale è un risultato positivo. Se quell’accordo dovesse funzionare, metterebbe fine all’immonda tratta di esseri umani almeno in quel tratto di mare dove nel solo 2016 sono morte almeno 3.500 persone. Ma se è ancora consentito ragionare sul tema, senza ritrovarsi iscritti a forza nel partito dei buonisti, vale forse la pena prendere spunto da questa intesa difensiva per allargare lo sguardo.
Le migrazioni sono infatti un formidabile termometro dello stato di salute del mondo e chiamano in causa diversi fattori, soprattutto di politica estera e non solo interna. E dicono qualcosa anche di noi. Da questa Europa era illusorio aspettarsi di più. La cooperazione interna nella gestione dei flussi è fallita, come certificano l’ostilità alla redistribuzione di quote di migranti tra i 28 Stati Ue e l’opposizione alla riforma del Trattato di Dublino, che assegna i richiedenti asilo al Paese di primo arrivo, quindi principalmente a Italia e Grecia. Già il dover ricorrere a un lessico da contabili (quote, redistribuzione) denuncia la deriva di una politica ridotta a pura amministrazione, a tecnica dell’esistente. Così i migranti-quote sono diventati uno strumento di lotta all’interno dell’Unione. Lo sa bene il primo ministro ungherese Viktor Orban, campione nel nostro continente della linea più dura e pura. Non così pura però: Orban continua a fare propaganda sui migranti ma i numeri dicono che nel 2016 solo 467 persone erano registrate nei centri di accoglienza ungheresi (non a caso il referendum magiaro contro le quote di distribuzione dei profughi nell’Unione non raggiunse il quorum…) mentre a migliaia vengono fatti transitare verso altri Paesi. Verso l’Italia invece Austria e Slovenia inviano via treno richiedenti asilo indesiderati.
Se queste sono le premesse, almeno la «Disunione europea» sostiene l’accordo fra Roma e Tripoli e sposta l’attenzione verso l’origine: in questo clima avrebbe potuto prevalere ancora una volta l’indifferenza verso una questione che l’Ue ormai considera rilevante solo per Italia e Grecia. Ma se non vogliamo vendere certezze non scontate e rassegnarci al cinismo dei tempi, vanno allora rilevate anche le criticità di quell’intesa. L’Italia ha stanziato 200 milioni (cifra analoga verrà impegnata dall’Ue) per addestrare la Guardia costiera libica nel contrasto al traffico di esseri umani, rilanciare i rimpatri volontari, rafforzare le frontiere meridionali della Libia, migliorare il funzionamento dei «campi di accoglienza» dei migranti nello stesso Paese. Oggi quei campi sono in realtà prigioni teatro di abusi gravissimi (torture, stupri e delitti) denunciati da anni da organizzazioni umanitarie, giornalisti e ora da un’inchiesta della Procura di Milano sulla tratta di persone.
L’intesa è stata siglata con Fayez al-Serraj, a capo dell’unico dei tre governi che oggi controllano la Libia riconosciuto dalla comunità internazionale (ma non da Russia, Francia ed Egitto fra gli altri). Il governo Serraj controlla solo una parte delle coste da cui partono i migranti diretti in Italia e la Guardia marittima è infiltrata dalla mafia dei trafficanti. L’applicazione dell’accordo richiederà quindi tempi lunghi e gli esiti non sono così scontati.Ma quell’intesa soprattutto, nell’attuale versione, non prevede «canali umanitari» verso l’Europa per quelle persone che scappano da guerre e persecuzioni, in violazione alle tutele previste dal diritto internazionale. A meno di voler considerare questo diritto obsoleto, cascame di un’epoca tramontata, di un’Europa imbelle. Ma sarebbe un giudizio falso e pericoloso: quel diritto era nato sulle ceneri e sulle ferite della Seconda guerra mondiale e per 70 anni ci ha garantito pace e sicurezza. Quando è stato violato, ha provocato danni che stiamo ancora pagando, come nel caso della destabilizzante avventura bellica in Iraq nel 2003.
Un approccio intelligente alla crisi migratoria del Mediterraneo non può esimersi invece dalla comprensione di ciò che accade a sud del «Mare Nostrum». I migranti diretti in Europa arrivano principalmente da dieci Paesi (Siria, Afghanistan, Nigeria, Iraq, Eritrea, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Pakistan e Senegal), non da aree indefinite. Un’efficace gestione delle migrazioni chiama in causa anche politiche di cooperazione allo sviluppo, economiche e commerciali verso questi Stati. Anche in casa nostra c’è chi vorrebbe emulare Donald Trump, il presidente americano campione del protezionismo. Garantire protezione al proprio popolo è un obiettivo sacrosanto, evitando però approcci ideologici nella lettura delle possibili risposte e scopiazzature di ricette tutte ancora da verificare nei loro effetti. Semmai l’Europa ha oggi l’opportunità di rimettersi in gioco negli spazi non più presidiati dagli Stati Uniti. Ma deve uscire da una gestione principalmente tecnica delle questioni in gioco, recuperare uno sguardo alto e profondo, attingendo con orgoglio dal meglio della propria storia. E un grande banco di prova è proprio il Mediterraneo: non saranno le politiche difensive a far ritrovare al Vecchio continente un ruolo finalmente da protagonista.
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