«Ma quale Covid! Torna al lavoro»
La testimonianza di un insegnante

«Ora che il numero di morti e di contagi da Covid-19 sembra non spaventare più, e che si parla con insistenza di una Fase 2 di ritorno al lavoro, voglio raccontare quello che è successo a me qualche mese fa, per evitare che si faccia lo stesso errore». A parlare è Luca (nome di fantasia per tutelare la sua privacy), e di mestiere fa l’insegnante in scuola superiore a Dalmine.

Luca residente in Bergamasca si ammala proprio nei giorni in cui scoppia il Covid in Italia, ci sono i primi casi a Codogno, Bergamo n è ancora un focolaio, ma lui ha proprio quei sintomi. Viene visitato tra il 17 e il 20 febbraio da due persone diverse: dal suo medico di base e dal medico della visita fiscale di controllo dell’ Inps, quest’ultimo gli dice, e gli scrive con tanto di ricevuta, che può riprendere il lavoro il giorno successivo. Al rientro in classe, il venerdì, Luca va addirittura in gita scolastica a Milano. Esattamente in quel week end esplode il focolaio di Alzano. E a scuola lui non ci torna più, perchè da lunedì chiudono tutti gli istituti scolastici in Lombardia.

«Comincia tutto il 17 febbraio - spiega - mi sono svegliato e non mi sentivo bene. Avevo febbre a 38,5, tosse forte che mi è rimasta per settimane, non sentivo né odori né sapori. Chiamo subito la scuola avvisando che non sarei andato e sento il medico di base per farmi prescrivere i giorni di malattia, dopo una visita me ne da tre, come se si trattasse di influenza. La febbre comincia a scendere, il terzo giorno arriva il controllo fiscale che mi dice che posso, o meglio devo, tornare a scuola il giorno successivo. Il venerdì al mio rientro, vado a Milano per una visita d’istruzione. Poi nel week end la notizia: scuole chiuse. Capite l’assurdo? Tre giorni dopo che il controllo fiscale mi ha detto che potevo, anzi dovevo, tornare a lavorare con i sintomi che erano quelli del Covid, chiudono tutte le scuole».

Nei giorni successivi Luca chiama più e più volte i numeri verdi istituiti per l’emergenza per capire se si potesse fare un tampone, soprattutto dopo che anche suo padre si è ammalato con gli stessi sintomi. «Ovviamente nessuno me l’ha fatto e nessuno ci ha contattati ma quella è un’altra storia - spiega con amarezza - quando penso al perchè abbiamo avuto così tanti contagi e morti in Bergamasca penso al mio caso. Rimandato al lavoro derubricando la questione ad una banale influenza nonostante quello che stava succedendo a Codogno e nei comuni vicini. In un giorno e mezzo di lavoro sono stato a contatto con i ragazzi, con i loro genitori, con colleghi, ho preso la metro e l’autobus a Milano. L’impressione, lungi da me puntare il dito contro il personale medico, è che loro per primi non avessero idea o non sono stati messi nella condizione di capire quello che stava succedendo. Nessuno di quelli che ha visitato me aveva presidi di sicurezza, né mascherine né guanti, che dopo pochi giorni sarebbero diventati essenziali. Ora che si parla di ritorno al lavoro in tempi brevi bisognerebbe non dimenticare quello che è stato fatto e successo in precedenza».

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