La nostra vita
La nostra storia

Mai come oggi e in nessun altro luogo che non sia Bergamo. Il messaggio di Papa Francesco per la 54ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali sembra scritto per la nostra gente e per la nostra terra, così martoriata dalla pandemia del coronavirus.

Prendendo spunto dal Libro dell’Esodo (10,2), il Pontefice fissa l’essenza del suo discorso in sole tredici parole: «Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria - La vita si fa storia». E nelle nostre case - da quel 24 febbraio, quando venne registrato il primo morto per Covid, ad oggi - la vita si è fatta davvero storia, passando attraverso «la porta» della morte. Un’interminabile catena di lutti, susseguitisi uno via l’altro, persino «accavallatisi» un sull’altro, tanto da rendere necessario l’intervento dell’Esercito per trasportare altrove i feretri alla ricerca di un luogo per raccoglierne le ceneri.

Militari in divisa in missione di pace, addestrati per la guerra, ma rivestiti di un’umanità nuova, lacerati anch’essi dal dolore e dal profondo senso di pietà con cui hanno accompagnato il loro triste «carico». Dietro di loro, il nulla… Il mondo intero ha visto questa «storia», e per il mondo intero questa è la nostra Storia, ma noi sappiamo bene che dentro questa Storia ci sono le storie dei nostri morti («Ogni vita è una storia», come recita il memoriale che abbiamo voluto dedicare alle vittime del coronavirus), e quelle dei loro familiari e dei loro amici, che se li sono visti portare via in un soffio, come spegnere un fiammifero, e che hanno urlato il loro dolore ai quattro venti, l’unico modo rimasto per sfogare una disperazione che toglieva il respiro.

Ma ci sono anche le storie di chi si è preso cura di loro – medici, infermieri, volontari – e che senza arrendersi mai, hanno speso tutta la loro energia per tenere quegli uomini e quelle donne - quei papà e quelle mamme, quei nonni e quei figli - legati al filo della vita. E ci sono anche le storie di chi si è trovato a gestire sistemi, strutture e situazioni rivelatisi fragili di fronte alla forza distruttiva del virus, come argini posticci travolti da un’improvvisa e violenta ondata di piena. Hanno fatto quel che potevano, tra lentezze, ritardi, incomprensioni, inadeguatezze, qualche volta anche incapacità, ma hanno fatto, e in molti casi hanno fatto bene.

Un mondo di storie, insomma, raccontate non solo dai giornali – da «L’Eco» in primis –, ma da ciascuno di noi, sui social (attraverso i messaggi, le fotografie, i video…) piuttosto che parlando con il nostro vicino di casa, anche solo da un balcone all’altro. Davvero la storia siamo noi, e davvero i nostri racconti serviranno a tramandare la nostra vita e il nostro ricordo. Ed è proprio per questo che il messaggio del Papa è rivolto a tutti, non solo ai giornalisti, perché Francesco sa bene che oggi tutti noi siamo comunicatori e che il recinto della professione giornalistica quale spazio per convogliare e gestire l’informazione non è più l’unico, anzi.

Ma in un mondo dove l’uso strumentale della parola è una vera e propria arma usata per distruggere l’avversario nel tempo di un battito d’ali, è necessario capire il limite e soprattutto il valore del nostro racconto. «Per non smarrirci - ci dice il Papa - abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme». E solo noi bergamaschi sappiamo quanto di queste storie abbiamo bisogno, oggi più che mai, per rimettere insieme i cocci, riannodare i fili della memoria e guardare al futuro con serenità e rinnovata determinazione. Tutti insieme.

«Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano - scrive ancora Bergoglio -, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo, che riveli l’intreccio dei fili con i quali siamo collegati gli uni agli altri». Chiacchiere e pettegolezzi, violenza e falsità, vanno dunque messi al bando, perché avvelenano il nostro comunicare. Spesso sui telai della comunicazione - ammonisce con saggezza il Papa -, anziché racconti costruttivi vengono tessute storie distruttive e provocatorie, «che logorano e spezzano i fili fragili della convivenza». E così facendo, mettendo insieme notizie verosimili ma in realtà false, «non si tesse la storia umana, si spoglia l’uomo di dignità».

C’è bisogno di pazienza e di discernimento per non perdere il filo «tra le tante lacerazioni dell’oggi», storie - e anche questo sembra scritto per noi bergamaschi - «che riportino alla luce la verità di quel che siamo, anche nell’eroicità ignorata del quotidiano». E ognuno di noi, oggi, ne ha almeno una da raccontare. Certo, sullo sfondo e nell’orizzonte ultimo, c’è una «Storia di Storie», la Sacra Scrittura. È per questo che quando scriviamo non dobbiamo farlo seguendo le logiche persuasive (e a volte perverse) dello storytelling, «ma testimoniare ciò che lo Spirito scrive nei cuori, rivelare a ciascuno che la sua storia contiene meraviglie stupende». Anche quando raccontiamo il male, c’è sempre spazio per raccontare il bene che vi è nascosto. Cerchiamo di ricordarcelo, anche quando digitiamo sullo smartphone parole cariche di odio e di razzismo, parole che, anziché unire, mandano in frantumi la convivenza sociale.

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