«Dialogo, leadership e competenza.
Ecco il metodo Draghi»

Isabella Bufacchi, corrispondente de «Il Sole 24 Ore» a Francoforte: «Ci intratteneva con battute e conversazioni cordiali».

L’importanza di chiamarsi Mario Draghi. Un profilo da «crisis manager», l’uomo delle emergenze, un metodo collaudato il suo.

Con Isabella Bufacchi, corrispondente de «Il Sole 24 ore» dalla Germania, che ha conosciuto il banchiere negli anni di presidenza alla Bce, cerchiamo di illustrare da vicino l’uomo e il tecnico. Cominciamo dal tipo umano.

«È una personalità sicuramente cordiale. Quando lo osserviamo da lontano, può apparire distante sia per la sua competenza sia per la sua riservatezza. Però quando si ha la possibilità di conoscerlo meglio, si vede che ha la capacità di stabilire un rapporto anche caldo con le persone. È quello che è riuscito a fare alla Banca centrale europea, qui a Francoforte dove vivo e lavoro, una società che solo sul versante monetario mobilita al suo interno qualcosa come 1.500 persone. Draghi, con il suo comportamento, ha fatto capire l’importanza del suo incarico, coinvolgendo uno staff composito, fatto di tante culture e tante competenze, e non solo dall’Eurozona. Il linguaggio della competenza s’ è rivelato vincente, perché è stato recepito e riconosciuto dai suoi interlocutori».

Però la fase espansiva inaugurata da Draghi è stata avversata, almeno nella fase iniziale, da taluni ambienti della Germania, il Paese che ha presidiato l’ortodossia dell’austerità.

«I problemi sono noti, ma anche superati. Quando la Bce ha deciso di comperare titoli di Stato si sono levate voci dissonanti, dalla stampa conservatrice alla stessa Corte costituzionale, che è scesa in campo in modo critico. In ogni caso tutti hanno riscontrato le capacità dell’allora presidente, a partire dalla Merkel, con la quale Draghi ha sempre avuto ottimi rapporti. Anche Wolfgang Schäuble, ex ministro delle Finanze e oggi presidente del Bundestag, che pure aveva posizioni notoriamente rigide, ha reso omaggio al banchiere centrale. Il problema principale s’ è avuto con il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che tutelava le istanze tedesche, mentre per Draghi veniva prima di tutto l’istituzione della Bce, peraltro unica nel suo genere, che si traduce nel bene di tutti i 19 Paesi che la compongono. Lui, in ogni caso, da europeista convinto, ha sempre trovato il modo di dialogare con tutti».

Competenza e leadership in un ambiente complesso.

«Alla fine il metodo Draghi è passato: cioè quel che conta è il risultato finale, raggiungere l’obiettivo programmato. Voleva iniettare liquidità in quantità straordinaria nel sistema, per imprese e famiglie tramite le banche, e c’è riuscito. E con i tassi scesi a livelli negativi è entrato in un territorio inesplorato ed eterodosso per i canoni tradizionali, riuscendo comunque a trasformare la Bce, una giovanissima banca centrale, in un’istituzione matura che ha conquistato una reputazione riconosciuta nel mondo e sui mercati internazionali. E c’è riuscito utilizzando numerosi strumenti tecnici che ha dovuto spiegare e poi implementare. Il suo metodo è fatto di competenza, dialogo e leadership. Leadership che significa interpretare in modo responsabile il proprio mandato. E lo ha potuto fare anche per il buon lavoro della sua squadra in Bce, la squadra che ha costruito gli strumenti non convenzionali dell’era Draghi. Lo stesso Weidmann ha collaborato costruendo il Quantitative easing di Draghi. Dietro il celebre “Whatever it takes”, riferito allo slancio inedito che l’istituto avrebbe poi compiuto per difendere l’euro, c’erano una banca e una squadra. È bastata dirla, quella frase, e i mercati hanno subito recepito e creduto alla reputazione e all’affidabilità della potenza della Bce».

Quindi non c’era un pregiudizio verso un italiano?

«Assolutamente no. Del resto Draghi è giunto a Francoforte già forte delle proprie relazioni internazionali e del ruolo giocato a inizio anni ’90 come direttore generale del Tesoro a Roma quando, fra l’altro, gestì il pacchetto delle privatizzazioni e la grande crisi della lira uscita dal serpente monetario dello Sme. Anzi, la sua italianità lo ha aiutato. Cito gli incontri dei banchieri centrali e di super esperti d’Europa a Sintra in Portogallo, una novità introdotta da Draghi: un palcoscenico che gli è servito anche per annunciare le sue politiche monetarie e preparare così gli interventi espansivi. Alla sera, al termine del summit, incontrava tutti e anche noi giornalisti, intrattenendoci con battute e in conversazioni cordiali. Insomma, scendeva dal piedistallo obbligato e qui usciva il suo essere italiano».

Dal punto di vista della dottrina economica, Draghi dove si colloca?

«Per quel che ho visto io, oltre a essere uno dei più autorevoli economisti in Italia e nel mondo, è un geniale “crisis manager”: adatta le scuole di pensiero alla situazione reale, per farla evolvere e per andare avanti. È un realista creativo e innovativo. Con Draghi, ad esempio, è nata in Bce la vigilanza bancaria unica europea, il collante di quell’unione bancaria che sarà decisiva per la Ue».

Preoccupa la crisi politica italiana in Germania?

«Direi di sì, è molto seguita. L’incarico a Draghi ha avuto, e ha, molto risalto ed è stato accolto con un evidente sollievo. La Germania, sin dalla prima ondata del Covid, è stata partecipe del nostro dramma in Italia. Pure qui ci sono problemi per l’approvvigionamento e la distribuzione dei vaccini. Quel che forse ci differenzia è che in Germania si dibatte molto, già dall’anno scorso, di futuro, di ricostruzione, di come ricreare un Paese e soprattutto un’Europa forti e competitivi. Ecco allora i timori tedeschi per l’approccio italiano al Recovery. La questione europea non si esaurisce lungo l’asse Parigi-Berlino. Anzi: la Germania conta sull’Italia, cioè sul suo primo partner manifatturiero, per ricostruire l’Europa. Contrariamente a certe impressioni, il presente e il futuro dell’Italia sono molto importanti per la Germania, specie ora con la nuova esperienza di Draghi».

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