Da 20 anni lotta contro la malattia
«Dalla fatica alla voglia di riscatto»

La storia di Enrica Previtali. L’infiammazione cronica scoperta dopo la nascita del figlio, gli interventi, l’impegno per gli altri.

«Il mondo spezza tutti - scrive Ernest Hemingway - e poi molti sono forti proprio nei punti spezzati». Enrica Previtali sorride seduta nel suo salotto.

È un periodo difficile per lei che vive ad Alzano, uno dei paesi della Bergamasca più colpiti dall’epidemia di Covid-19. Ancor di più perché da vent’anni combatte contro una malattia infiammatoria cronica dell’intestino (Mici) che l’ha costretta ad affrontare interventi chirurgici demolitivi e ha cambiato radicalmente la sua vita. Questo per lei è stato un grande allenamento al coraggio e alla resistenza, che ora mette anche a servizio di altri.

Enrica lavora nell’attività di famiglia, il ristorante Arlecchino di Bergamo, con il papà Francesco, il marito Gianfranco e la sorella Francesca: «Una seconda casa, dove sono cresciuta coltivando il valore dell’accoglienza a partire dalla tavola». Dal 2015 è presidente nazionale dell’associazione Amici, che sostiene pazienti con la sua stessa malattia (in Italia ne soffrono oltre 250 mila persone): «L’esistenza non può essere centrata solo su se stessi - è la sua filosofia - ma sulla comunità, è giusto che ognuno dia il proprio contributo».

L’inizio della malattia

La diagnosi della sua malattia è arrivata intorno ai trent’anni, poco dopo la nascita di suo figlio Pietro, che oggi ne ha 23.

«Ho avuto la varicella - racconta -, avevo la febbre ma si è risolta bene. Qualche mese dopo, però, ho incominciato a perdere peso, ad avvertire un senso di forte stanchezza e perdite ematiche, finché sono crollata e mi hanno ricoverata in ospedale. Ho iniziato una terapia di cortisone e sono tornata a casa, ma poi le mie condizioni si sono aggravate e mi hanno ricoverata a Bergamo, allora c’erano ancora gli Ospedali Riuniti, e ho trascorso l’estate lì».

É stato un periodo traumatico, in cui Enrica ha dovuto rassegnarsi a una condizione di immobilità e debolezza: «Avevo l’ordine di non alzarmi dal letto, ho perso di colpo la mia autonomia e la mia dignità, ero nelle mani di medici e infermieri. Mi pesava moltissimo».

All’inizio Enrica si è sentita smarrita: «Non sapevo con precisione che cosa mi stesse accadendo, quando avevo delle obiezioni non sempre le manifestavo e forse questo all’inizio mi ha esposto a qualche errore. Nel giro di pochi anni ho dovuto affrontare interventi chirurgici importanti e demolitivi, perché non rispondevo alle terapie. Ho dovuto sopportare la deviazione dell’intestino sull’addome, con tutto ciò che questo comportava, dal punto di vista fisico e psicologico. Mi sono adattata, ho reagito con determinazione anche perché a casa mi aspettava un bambino di 16 mesi. Ho dovuto affrontare un percorso lungo con molti interventi e altrettante complicazioni, con la consapevolezza in quei momenti di non potermi prendere cura di me stessa e di avere bisogno di essere accudita. Mi sentivo un peso per gli altri, anche se avevo la mia famiglia sempre accanto».

Un momento delicato

La malattia si è presentata in un momento delicato per Enrica, che aveva da poco deciso di cambiare professione, passando dal lavoro dipendente a quello autonomo: «Dopo nove anni di lavoro all’Ascom avevo deciso di affiancare mio papà nel ristorante di famiglia con mio marito e mia sorella, perché proprio in quel periodo per motivi di salute il suo socio era stato costretto a ritirarsi. Tutte le garanzie e le certezze erano venute meno, un aspetto che si aggiungeva al dispiacere di non poter essere d’aiuto. Ho provato un senso di impotenza che avrebbe potuto annientarmi, ma ha fatto invece scattare in me una rabbia costruttiva e un grande desiderio di riscatto».

Ci sono stati momenti durissimi, Enrica ha dovuto affrontare una serie di interventi chirurgici in una condizione di debolezza e debilitazione, senza la certezza di poterli superare. «Quando in questi giorni vedo i servizi girati nei reparti di terapia intensiva degli ospedali ripenso alla mia esperienza, perché so che cosa questo significhi, l’ho provato in prima persona: ero lucida e consapevole. Avevo addosso solo un lenzuolo, ero attaccata ai macchinari e provavo un senso di attesa, di sospensione. Mi sentivo come avvolta in una bolla, privata della possibilità di agire. All’inizio mi tormentavo, poi ho imparato a gestire la situazione, anche se non sapevo quando ne sarei uscita e cosa sarebbe accaduto in seguito. Il tempo era dilatato, scorreva in alternanza con i miei pensieri, i miei sogni, ed era scandito dalle terapie, dalla presenza dei medici e degli infermieri. Si è creato con loro un legame forte di solidarietà, fatto di piccoli gesti. Mi stringevano la mano per incoraggiarmi, si prendevano cura di me per farmi sentire meglio. Alla fine ce l’ho fatta, sono tornata a casa, ho potuto riabbracciare mio figlio, anche se a causa della deviazione dell’intestino avevo questo sacchetto da gestire, più ribelle di quanto lo fossi io. Mi vergognavo, provavo disagio e mi isolavo». Ci sono state ricadute, nuovi interventi, nuove complicazioni, finché nel 2007 Enrica ha dovuto affrontare un’altra prova, la malattia del papà Francesco: «Mi stava sempre vicino nelle mie traversie mediche, ma a un certo punto mi ha detto che non si sentiva molto bene, e mi sono accorta che era dimagrito molto. L’ho spinto a farsi visitare e l’ho accompagnato io stessa all’ospedale, perché fosse sottoposto a una colonscopia. Purtroppo gli è stato diagnosticato un tumore all’intestino e anche lui ha dovuto affrontare un’operazione. Abbiamo continuato a lottare insieme, facendoci forza a vicenda. Non voleva fermare il suo lavoro, che è la sua vita. Aveva 23 anni quando ha aperto il ristorante nel 1966 con mia madre Emilia, il suo socio e sua moglie: sono stati coraggiosi, temerari e sognatori. Nel 2019 mio padre ha ricevuto il premio per le attività storiche dalla Regione Lombardia».

Francesco ha subìto l’intervento nel mese di agosto, quando il suo locale era chiuso per ferie: «Anch’io mi stavo ancora riprendendo, mi ricordo che i medici mi sgridavano vedendomi all’ospedale con lui. Nel 2011 entrambi abbiamo subìto interventi invasivi e rischiosi, lui per alcune metastasi al fegato e io per la mia malattia. Ci siamo affidati allo stesso chirurgo a cui dobbiamo la vita, e con il quale è nata in seguito una bella amicizia. Mio padre aveva una grandissima voglia di rimettersi in piedi per continuare il suo lavoro. Ci siamo sempre incoraggiati reciprocamente, abbiamo affrontato quello che la vita ci ha presentato, ne abbiamo passate tante e abbiamo sicuramente perso qualcosa, allo stesso tempo però stare vicini in quei momenti difficili ci ha aiutato a mantenere viva la voglia di vivere, di lottare, di alzarsi dal letto al mattino e di sentire l’aria fresca sul viso».

Questa esperienza si è trasferita anche sul lavoro e sulle relazioni di Enrica e della sua famiglia: «Cerchiamo di creare insieme un ambiente in cui le persone possono sentirsi a proprio agio, condividiamo le loro storie ed è questo che in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando ci provoca ansia e preoccupazione per tutte le persone che conosciamo e a cui siamo legati».

L’associazione

«Tutti noi abbiamo una riserva insospettata di forza - scrive Isabel Allende - che emerge quando la vita ci mette alla prova». Enrica ha imparato crescendo fra i tavoli di un ristorante l’amicizia, l’accoglienza, il valore delle relazioni e li ha messi in pratica non solo nella sua vita personale, ma anche nell’associazione di volontariato che presiede: «Ero ancora nei primi anni di malattia quando i miei familiari mi hanno fatto trovare in auto uno scatolone con il materiale informativo di Amici (www.amiciitalia.eu). Mi sono innervosita moltissimo e ho reagito male, con una scenata, perché volevo tenere tutto sotto controllo, gestire ogni problema da sola e mi dava fastidio che qualcuno mi considerasse fragile e bisognosa di aiuto. Poi, però, uno dei miei medici con un’amichevole imboscata mi ha fatto conoscere i volontari dell’associazione. Sono rimasta spiazzata e all’inizio volevo scappare, poi ho capito che per la prima volta con loro sentivo davvero di non essere sola, di avere qualcuno con cui potermi confrontare su aspetti importanti della malattia. Ho incominciato a creare un gruppo a Bergamo, ad avviare l’attività di auto-aiuto».

Attività che è iniziata in sordina, poi Enrica ha incominciato ad allargarla sul territorio. «Sono diventata presidente dell’associazione lombarda, poi direttrice della nostra rivista, infine presidente nazionale. Mi sono impegnata per aiutare le persone a stare meglio, per far capire ai medici il valore di una comunicazione corretta, per dare valore agli aspetti psicologici e al rapporto tra medico e paziente. In questo momento così delicato ci stiamo impegnando molto per offrire supporto e risposte a chi ha bisogno di aiuto in un momento in cui l’attenzione della sanità è sbilanciata su un altro fronte».

L’associazione a fine gennaio ha ricevuto dalla Regione il premio #Maisoli, assegnato alle associazioni che operano a tutela delle persone più fragili e dei bambini, e ha dato vita alla Fondazione Amici, guidata da Marco Donadoni e dedicata alla ricerca scientifica, che si sta dedicando in particolare a uno studio in ambito pediatrico. Così Enrica cerca di allargare il cuore e di aprire gli orizzonti: «Ho imparato dai miei genitori ad apprezzare le piccole cose, a non mollare mai, con l’orgoglio di appartenere a un territorio come quello di Bergamo. Anche se a volte un po’ crudi e capoccioni, siamo capaci di superare le difficoltà, essere generosi e prenderci cura delle persone più fragili. Credo che sia l’insegnamento più bello anche per i nostri figli»

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