Commercio, 281 chiusure: «Poteva andare peggio, ma non si regge all’infinito»

Nella Bergamasca la perdita nel terziario è dell’1,15% nell’anno del Covid. Preoccupano i negozi non alimentari.

Poteva andare peggio. Ma non può andare avanti così all’infinito. «Qui non c’è spazio per periodi troppo lunghi d’attesa: serve una reazione e regole certe»: Oscar Fusini, direttore di Ascom, scorre i dati della Camera di Commercio e tira un mezzo sospiro di sollievo. Solo mezzo, però. Le attività del terziario nella Bergamasca erano 24.401 nel 2019, dopo l’anno del Covid, sono scese a 24.120. Fanno 281 in meno in valore assoluto, meno 1,15 in percentuale. In città si registra una perdita dello 0,41% pari a 18 attività. Se paragoniamo il dato a tre anni su base provinciale la differenza è di 143 attività, pari ad un meno 0,6%: dato che scende a 28 e ad un meno 0,12% se si arriva a 5 anni. Il calo c’è quindi stato «ma temevamo che il contraccolpo sulle chiusure sarebbe stato più alto. Eravamo spaventati, sì, anche se Milano che aveva fatto le sue elaborazioni prima di noi ci aveva parlato di perdite comunque contenute» rileva Fusini. «Il segno meno c’è ed è evidente, ma oggettivamente il sistema ha tenuto: perdere 281 imprese con la bomba atomica del Covid che si è abbattuta sul nostro tessuto economico-sociale è un buon risultato».

Ambulanti in (lunga) crisi

Nel dettaglio, su base provinciale, la perdita più rilevante nell’ultimo anno si è registrata nel commercio ambulante con un meno 4%: 94 attività in meno. Un trend negativo che si trascina però da tempo: il dato a 5 anni vede difatti un calo dell’8,99% che sale all’11,27 se scendiamo a 3.

In valore assoluto il maggior saldo negativo lo registra il commercio fisso non alimentare che perde 167 negozi in provincia. Di questi 34 sono nel capoluogo, ed è la perdita numericamente più significativa. Anche perché negli ultimi 5 anni si erano registrati 140 negozi in più. «È un dato che effettivamente ci preoccupa un po’: c’è stata un’accelerazione in tipologie merceologiche come l’abbigliamento e le calzature, quelle che hanno più sofferto nel lockdown e nei mesi successivi».

Negli ultimi 5 anni c’era stata una crescita del 6,12% e del 4,84 sull’arco dei 3 e che nel 2020 segna invece un meno 2,49%. che sale al 2,6 nel capoluogo.

In città aumentano i locali

Più contenuta la perdita nel settore alimentari: 40 negozi in meno in tutta la provincia (meno 1,75%) di cui 4 nel capoluogo (meno 1,33%). A livello provinciale il dato degli ultimi 5 anni è comunque negativo con un meno 2,6%: a Bergamo città, invece, si era registrata una crescita del 10,04%.

«Complessivamente la situazione tiene, comunque, e ci sono due possibili chiavi di lettura per interpretare il fenomeno» prosegue Fusini. La prima: «In sostanza stiamo assistendo ad un azzeramento del mercato delle compravendite: in molti vorrebbero uscire, ma nessuno vuole entrare». Ergo, la resistenza diventa quasi un obbligo, perché alternative non ve ne sono. Di nessun genere. E questo porta alla seconda chiave di lettura di Ascom: «Non c’è alternativa alcuna di sbocchi occupazionali». Ovvero, prima di vendere l’attività bisogna avere qualcosa da fare dopo, e fuori dal proprio negozio la situazione complessiva è tutt’altro che rosea. A questo punto si torna al fattore resistenza «soprattutto se sei ben lontano dall’età pensionabile» è la considerazione di Fusini.

Quei pochi che hanno tentato una strada diversa potrebbero trovarsi in quel più 0,46% (dato sostanzialmente fotocopia dello 0,42 cittadino) della voce ausiliari e servizi alle imprese: «Quando crescono gli autonomi nel settore generalmente è un segno di indebolimento, si apre una partita Iva per provare a resistere».

C’è poi un dato di stretta attualità, quello di alberghi, bar, ristoranti e locali serali: meno 0,46% complessivo (20 in meno sui 4.406 del 2019) ma più 3,04 in città: dai 691 del 2019 ai 712 del 2020, probabili aperture di inizio anno, preCovid. Un più 21 che dimostra comunque la vitalità di un settore che attende di ripartire senza provvedimenti a singhiozzo. E non è il solo. «Perché questi dati dimostrano che la rete ha tenuto, sì, ma non può farlo in eterno».

© RIPRODUZIONE RISERVATA