Anche a Bergamo il virus fa paura
Mascherine a ruba e «sindrome cinese»

Alla farmacia dell’aeroporto di Orio al Serio mascherine esaurite in poche ore dai passeggeri in partenza. Nei ristoranti cinesi calo dei clienti negli ultimi due giorni. «Allarmismo ingiustificato, siamo molto preoccupati».

La paura del coronavirus decolla. All’aeroporto di Orio al Serio hanno smesso di contare le mascherine vendute da quando l’allarme ha occupato la home di tutti gli smartphone. Ieri mattina «quaranta in poco meno di due ore», racconta la farmacista sventolando nell’aria le ultime due confezioni. Le probabilità che l’influenza letale sia arrivata fino a qui, ai piedi delle Orobie, sono nell’ordine dello zero virgola. La ragione vuole che il vero pericolo, la pandemia conclamata, sia distante diciassette ore di volo. Almeno per ora. Eppure vatti a fidare, male che vada ci si protegge dai malanni di stagione.

Non sono pochi i passeggeri in coda verso il check-in bardati di tutto punto, al sicuro con il loro kit antivirus. La maschera, ormai uno status symbol. Il blister intonso di tachipirina mille. E pure la sciarpa, nonostante il venerdì più caldo dell’ennesimo inverno anomalo. «Virali» sono i discorsi in ogni angolo dello scalo, dal bar fino alla fila per acquistare un biglietto dei bus in direzione Milano. Davide Moro è uno degli addetti all’accoglienza di Terravision. L’azienda gli ha appena comunicato che è meglio indossare la mascherina. Perché ogni giorno stacca i biglietti a migliaia di persone, tra starnuti e fazzoletti che si librano nell’aria pesante di sudore, pochi secondi prima della partenza. «Io l’ho comprata subito e certo che la indosso, non si sa mai. La precauzione è importante. I due casi italiani sono atterrati all’aeroporto di Malpensa, scalo collegato con Milano a sua volta collegata con Bergamo. Perché rischiare?».

È la stessa domanda che si sono fatte due signore bergamasche avvistate con la maschera tra gli scaffali dell’Iper di Orio. Se giovedì gli sguardi erano di puro stupore - con qualcuno che non ha resistito allo scatto rubato da postare sui social - oggi (venerdì 31 gennaio ndr) dopo la scoperta dei primi due contagi in Italia c’è più comprensione. Stai a vedere che sono state prese in giro e invece avevano ragione loro. «Ma no, dai. Qui sono venute decine di persone a chiedere informazioni e a tutti ho cercato di spiegare che l’allarmismo è ingiustificato» - spiega Daniele, uno dei due farmacisti in servizio all’ingresso dell’ipermercato. Si presenta stringendo con forza la mano, quasi a sfidare la legge degli innumerevoli decaloghi in circolazione. «Il pericolo non va né sottovalutato, né ingigantito. Dai primi dati sembra che questa epidemia sia grave, come grave è stata la Sars. Per combattere la fobia serve un’informazione puntuale, quella che nel nostro piccolo stiamo cercando di dare».

Per ora prevale solo la paura. Che prende forma nei tavoli vuoti dei ristoranti. Nella solitudine tra le corsie dei negozi stracolmi di oggetti chiamati (poco elegantemente) «cinesate». Nelle telefonate per sapere «se è tutto tranquillo».

Si chiama sinofobia. Il timore antico che gli stranieri diffondano malattie. Niente di più pericoloso nella già delicata architettura sociale di un mondo dove sono tornati i muri. Mettiamoci pure le bufale degli ultimi giorni a completare un quadro già preoccupante, dai messaggi audio di pseudo scienziati profeti dell’Apocalisse fino ai finti testimoni di migliaia di morti in Cina.

Vale la pena ripetere l’ovvio: il contagio, del coronavirus come di qualsiasi altra malattia, non ha nulla a che vedere con l’etnia delle persone. Un italiano appena arrivato dalla Cina è infinitamente più pericoloso di Leonardo, da 20 anni in Italia, proprietario del ristorante cinese «Bai Wei Guan» (letteralmente «Atmosfera cinese») di via Quarenghi. Quest’anno non ha avuto manco il raffreddore. Vallo a spiegare ai clienti, italiani, che lo chiamano. «Da due giorni abbiamo meno gente a cena - dice mentre in sottofondo il pranzo sfrigola in cucina -. Ho sentito molti miei colleghi e sono preoccupati come me. Ma di cosa avete paura? Boh, speriamo che tutto si risolva».

Marco invece è tranquillo. Affonda le forbici nei capelli di un distinto signore che gli sta raccontando di «quella volta che ero andato in un ristorante cinese. Saranno stati 40 anni fa». Sorride e abbozza. Il suo salone (più che altro un piccolo ma accogliente corridoio) in via Battisti ha l’insegna tricolore e lui è tifosissimo dell’Atalanta. «Noi qui non abbiamo avuto nessun episodio spiacevole. Qualcuno ha chiesto, ma più per curiosità. E si è subito reso conto che non c’è pericolo. Non abbiamo avuto nessun calo, per fortuna. Credo che sarà un bel problema per i ristoranti».

E non solo. Le scale dell’Hao Mai di via Portico, a due passi da Oriocenter, sono immobili perché non c’è nessuno. Le uniche forme di vita sono due ragazzi al banco informazioni. A precisa domanda si guardano straniti. «Che virus? Non ne sappiamo niente». Chissà se è solo un modo per non rispondere ed evitare guai col capo. Oppure la necessità di sfuggire a un allarme che in fondo non li riguarda, se non per le conseguenze di un’ingiustificata psicosi collettiva. Potete chiamarla sindrome cinese. Banale, ma vero.

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