
Cronaca / Bergamo Città
Lunedì 17 Marzo 2025
«A Bergamo l’epicentro. Perché proprio qui? Ancora oggi non si sa»
CINQUE ANNI DAL COVID. Bombana: il 23 febbraio il primo positivo e iniziò il dramma. Di Marco: solidarietà vincente. Gianatti: eravamo come al fronte.
Bergamo
Attorno alle 9 del mattino di domenica 23 febbraio 2020, Enrico Bombana, all’epoca medico delle Malattie infettive dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo uscì con passo deciso dal reparto. Doveva andare in corridoio, dove il telefono prendeva meglio; sulla porta incontrò una anziana, nelle mani aveva due borse con dei vestiti da portare a un paziente lì ricoverato: «Non è nel mio carattere, ma la fermai bruscamente – ricorda Bombana, oggi direttore della Struttura complessa Vaccinazioni e sorveglianza malattie infettive dell’Asst Bergamo Est –. Le dissi: “Signora, lei dove va? Da adesso non si può più entrare, le faremo sapere”. Lo dissi così, senza troppe giustificazioni. Stava iniziando tutto».
Pochi minuti prima era stato proprio Bombana, quella mattina era di guardia, a ricevere l’esito del referto – via fax dai laboratori del San Matteo di Pavia – che ufficializzava la prima positività di un paziente bergamasco al Sars-CoV-2: «Andai subito a comunicarlo al mio primario, il dottor Marco Rizzi (in pensione dalla scorsa estate, ndr), che mi indicò di chiudere immediatamente il reparto e avvisare la direzione, e così si fece – ricorda Bombana –. Alle 11,20 ci arrivò una telefonata dall’ospedale di Alzano, dove era stato individuato un altro positivo. Fu una giornata lunghissima, che terminò alle 2 di notte: tutti i colleghi tornarono in servizio, occorreva approntare posti letto in reparto perché nel frattempo arrivavano i pazienti in pronto soccorso. L’ospedale stava iniziando a scaldare i motori».
La forza della squadra
Nella prima ondata, Bombana ha lavorato anche all’ospedale di San Giovanni Bianco («Arrivammo a organizzare 70 posti letto Covid con 14 di subintensiva: si vedeva il grande cuore del personale, in un ospedale di periferia») e poi al presidio della Fiera, lì dove s’incontravano professionisti da ogni parte del mondo: «C’eravamo noi del “Papa Giovanni”, quelli di Emergency che arrivavano dall’esperienza preziosissima di Ebola in Africa, e poi i russi – ricorda Bombana –, organizzatissimi e con materiale in abbondanza, capaci di tradurre rapidamente tutto in cirillico». Dalla seconda ondata il medico è passato all’Asst Bergamo Est, tra gli ospedali di Seriate e Alzano: «Un’azienda imputata manzonianamente del ruolo di untrice, invece si è dimostrato che all’ospedale di Alzano c’erano degli eroi: hanno combattuto in prima linea con poche armi, resistendo. È stato fatto un grande lavoro di riorganizzazione, che oggi prosegue col rafforzamento del legame con la medicina di territorio».
«C’era la paura di non riuscire a tenere il passo della pandemia nel riconvertire i reparti, nel reclutare il personale, nel trovare le attrezzature»
Una lunga storia, quella della pandemia. E se anche si circoscrive la riflessione alla sola prima ondata, emerge il ricordo di una situazione in frenetica evoluzione. È l’immagine che resta impressa per Fabiano Di Marco, direttore della Pneumologia del «Papa Giovanni»: «Inizialmente sembrava non fosse davvero un’emergenza, c’era chi restava tra l’incredulo e lo scettico. Poi emerse la fase della difficoltà: la paura di non riuscire a tenere il passo della pandemia nel riconvertire i reparti, nel reclutare il personale, nel trovare le attrezzature». Settimane vorticose, fino a una svolta: «Arrivammo a formare anche i dermatologi, gli anatomopatologi, perché avevamo paura di non farcela. Proprio in quel momento, quando eravamo al limite – prosegue Di Marco –, la domanda di posti letto iniziò a smettere: quando si poterono riconvertire i reparti riportandoli all’ordinario, allora iniziammo a capire che il peggio era alle spalle».
«Penso agli imprenditori che ci hanno consentito di avere strumentazioni, alle donazioni dei singoli cittadini. L’ospedale ha avuto un’eredità positiva»
La sfida organizzativa andava di pari passo a quella clinica e terapeutica, per cogliere la vera dinamica della malattia: «Da questo punto di vista – riflette Di Marco –, la grande fortuna e forza dell’ospedale è stata la collegialità. Affrontare da soli tutto ciò era impossibile: ma quando attorno al tavolo hai persone di enorme valore, tutto diventa possibile». A dare forza c’era la solidarietà fortissima verso Bergamo: «Un dato straordinario – conclude il direttore della Pneumologia –. Penso agli imprenditori che ci hanno consentito di avere strumentazioni, alle donazioni dei singoli cittadini. L’ospedale ha avuto un’eredità positiva».
La svolta delle autopsie
Cinque anni dopo, un quesito – forse il più incisivo – rimane inevaso: perché successe proprio a Bergamo? «È ancora inspiegato – sospira Andrea Gianatti, direttore del Dipartimento di Medicina di laboratorio e dell’Unità di Anatomia patologia del “Papa Giovanni” –. Si è provato a dire dei contatti commerciali con la Cina, dell’inquinamento, di una possibile predisposizione genetica, ma non c’è una spiegazione robusta che permetta di capire perché Bergamo sia stato l’epicentro. E questo lascia un po’ di rammarico».
«La grossa acquisizione fu la tromboinfiammazione e il coinvolgimento immunitario, cioè le conseguenze del virus sul sistema immunitario e trombotico, che venivano attivati in maniera esagerata. Una causa di morte che, prima, non veniva focalizzata»
A Gianatti e ai suoi collaboratori si deve una scelta fondamentale per la comprensione del Covid: le prime autopsie sui pazienti deceduti sul virus, eseguite già dal 23 marzo, nonostante indicazioni ministeriali che sconsigliavano (al condizionale, non era un divieto assoluto) quella pratica. «Lo abbiamo fatto proprio perché eravamo a Bergamo, in una situazione particolare – ricorda –. Entrare nel “quartiere mortuario” voleva dire vedere la fila di salme in uscita. L’attività autoptica è per noi l’elemento centrale, ci è sembrato opportuno e naturale capire gli effetti del virus sul corpo. Era doveroso procedere in questo senso, anche inquietante e tragico, ma che ha portato a indicazioni e riscontri oggettivi: la grossa acquisizione fu la tromboinfiammazione e il coinvolgimento immunitario, cioè le conseguenze del virus sul sistema immunitario e trombotico, che venivano attivati in maniera esagerata. Una causa di morte che, prima, non veniva focalizzata». C’era paura, in quei momenti? «Tutto l’ospedale era coinvolto – premette Gianatti –: era come essere al fronte, non ci pensi molto».
Alcuni insegnamenti, invece, sembrano già andati persi: «Abbiamo imparato poco – sospira Andrea Gianatti –. Il primo argine alle infezioni, cioè l’igiene delle mani, è già scemato. Mi aspettavo che almeno negli ambiti pubblici si continuasse con questa spinta, un baluardo in grado di abbattere le infezioni virali. E non si è più fatta divulgazione nelle scuole: mi sarei aspettato un maggior coinvolgimento dei ragazzi, invece non è stato così».
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