Ultrà, l’identikit in 200 interviste

Indagine controcorrente del «Laboratorio sulla famiglia» promossa dalla Provincia. Alcune conferme e aspetti inediti. Il filo rosso fra la partita in campo e quella in curva.

Si può essere ultrà ripudiando lo scontro - verbale, ma se occorre anche fisico - con l’ultrà avversario? No che non si può, secondo la logica perversa degli ultrà, altrimenti lo stadio non sarebbe più uno stadio, ma un teatro. E la curva non sarebbe più una curva, ma una galleria. E la partita non sarebbe più un evento da vivere, ma soltanto un evento cui assistere. Ma se lo scontro è fisico, sono ammessi tutti i colpi? Assolutamente no, perché l’avversario è uno che ha la stessa matrice tua e, per questo, merita rispetto. Lo scontro, dunque, deve essere leale.
Secondo il codice ultrà - prigioniero di un’ambiguità di fondo perché distingue tra violenza e violenza - la lealtà ammette pugni calci, cinghie, persino qualche sasso e qualche bastone, ma lame e bottiglie no. C’è dunque un confine fra ciò che, secondo loro, è accettabile e ciò che non lo è. E la violenza? La violenza è una conseguenza, non è il punto di partenza. Il punto di partenza è il coraggio, che distingue l’ultrà dal semplice tifoso, ma rischia di portarlo ai confini della legalità.
Questi concetti appartengono all’identikit dell’ultrà, così come esce dallo studio promosso dalla Provincia ed eseguito su un campione di 200 ragazzi fra i 15 e i 20 anni, tassativamente soltanto studenti di scuole cittadine, alcuni dei quali ultrà, ma non necessariamente. Il quadro che ne esce è assai più articolato e risponde a molti degli interrogativi che si pone la gente della strada, spesso osservatrice «a senso unico» del fenomeno, perché a senso unico viene solitamente informata. Il senso unico è, invece, quello che non hanno inteso percorrere i docenti, gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psicopedagogisti che hanno preparato questo convegno, i quali hanno impresso una caratteristica diversa alla loro indagine, testando il mondo ultrà non soltanto dal punto di vista dei comportamenti aggressivi e dell’ordine pubblico, come spesso viene fatto dalle analisi sociologiche e dai dibattiti televisivi. Niente etichettature, insomma, tipo ultrà uguale teppista. L’ultrà non può essere semplicisticamente visto come un emarginato, né come un diverso - o addirittura nemico - rispetto al tifoso normale, né come un elemento irrimediabilmente pericoloso, né infine come colui che rovina lo spettacolo, «perché la partita non si gioca soltanto sul campo, ma anche in curva e, dunque, senza ultrà non ci sarebbe partita».
E come si gioca questa partita parallela? Con i cori di incitamento, gli striscioni, le bandiere, i bengala colorati e tutto ciò che compone il rituale, che ha un suo fascino e una sua liturgia. Il fenomeno, dunque, merita di essere indagato attraverso una riflessione a più ampio spettro, scandagliando negli aspetti psicologici e sul valore speciale che i ragazzi attribuiscono alla squadra, alla bandiera, al loro gruppo. Ecco, quindi, che esce un’immagine dell’ultrà che è sì un soggetto a rischio, ma anche portatore, all’origine, di valori legati all’identità, primo fra tutti il senso di appartenenza. In fondo, in una società sempre più in difficoltà a mantenere in vita valori aggreganti, quello per la squadra del cuore è uno dei pochi che riesce a sopravvivere.
La domenica allo stadio, ma anche nel corso della settimana che precede la partita, si realizza una sorta di «effetto matrioska»: l’individuo viene inglobato nel gruppo, il gruppo nella curva, la curva nella squadra. In tal modo, la squadra diventa un ideale che dà senso alla vita. Meglio: è il prodotto elaborato dell’idolo che ogni ragazzino ha in età adolescenziale e, dunque, va amata per 365 giorni all’anno e la partita diventa la celebrazione dell’idolo. Alla partita «bisogna esserci», soprattutto in trasferta, dove si è più esposti agli insulti degli ultrà avversari. Amare la squadra non significa non contestarla: anche questo è un modo di amarla. Lo stadio non può essere paragonato alla discoteca: quest’ultima è prevedibile, lo stadio no, non sai mai quello che può succedere. E lo spinello allo stadio, rispetto alla discoteca, viene ritenuto un aspetto secondario. Ma, come s’è detto, il concetto portante è l’appartenenza al gruppo. Ciò comporta, come conseguenza negativa, la deresponsabilizzazione individuale, perché si agisce e si ragiona in termini collettivi, in una sorta di «anestesia etica» che impedisce di valutare il dolore della vittima: nel caso pratico un ultrà avversario, oppure un poliziotto, feriti. Il rischio più grosso - rovescio della medaglia del senso di appartenenza - è dunque che l’individuo, una volta intruppato nel gruppo, perda la propria identità, annegandola in un collettivo che giustifica tutto: non perché lo trovi comodo, ma perché ne è inconsapevolmente convinto.
La conseguenza è che talvolta si abbatta il sottile diaframma che divide il coraggio dalla violenza. Perché se l’estremizzazione del codice di virilità, che si dovrebbe fermare un attimo prima del male procurato al nemico, si ferma un attimo dopo, allora la partita diventa materia per medici e infermieri. Ci sono rischi rilevanti, dunque, che convivono con slanci di generosità, tipo il «mutuo soccorso» verso chi, nel gruppo, non ha magari i soldi per pagarsi una trasferta: in questo caso interviene la cassa comune, «nella quale - tengono a precisare gli ultrà dell’Atalanta - non entra una lira che non sia nostra». Ma ci sono slanci di sensibilità anche più eloquenti. «Voi Mero, noi Pisani: divisi dal tifo, uniti nel dolore» recitava uno striscione nella Nord di Bergamo la domenica successiva alla morte, in un incidente stradale, del giocatore Mero del Brescia. E che dire di quel «Ciao bimbi, salutateci le stelle» esposto domenica in memoria delle giovani vittime del terremoto? Che cosa è, tutto ciò, se non un grande serbatoio di energia positiva? Perché non lo si può tirare fuori più spesso? Lo studio della Provincia può essere il primo passo nella direzione di una risposta e anche l’apertura di un dibattito a più voci.

Da L’Eco di Bergamo del 09/11/2002Ildo Serantoni

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