Quando la boxe era un assolo di jazz
40 anni fa l’epica sfida Alì-Foreman

Contano gli uomini, non i pugni. È sempre stato così, quando la boxe era un assolo jazz, un modo come un altro di scalare i gradini della società guardando negli occhi i problemi, mentre il sudore rigava la fronte e lo stomaco lentamente si chiudeva.

Di solito il problema era sempre lo stesso: il gancio velenoso di chi stava di fronte, a 30 centimetri dalla faccia. Ma non contano i pugni, contano gli uomini. Uomini che dicono: «Quattrocento anni fa ero uno schiavo, ora torno a casa per combattere tra i miei fratelli» (Muhammad Alì).

Uomini che rispondono: «Lottare in favore dei neri? Non penso a queste cose, mi sto preparando a un combattimento. questo mi interessa, non voglio distrazioni. Bisogna essere saldi al cento per cento in tutto quello che si fa» (George Foreman).

Due modi di essere uomini, due modi di essere neri, due modi di crescere e vivere negli Stati Uniti, due modi di stare sul ring della vita. I pugni restano sullo sfondo, quasi inutili. E il quasi sta a dire che un uppercut alla punta del mento, quello che per due secondi ti spegne la luce, fa male.

Ecco, per una congiunzione astrale del tutto imprevedibile, quei due uomini il 30 ottobre di 40 anni fa a Kinshasa, nel cuore dell’Africa, hanno incrociato i guantoni. Hanno fatto parlare, fatto fotografare, fatto scrivere, fatto filosofeggiare in un brulichio che è arrivato fin qui e non si spegne perché non racconta di sport, ma racconta di anime perse e ritrovate.

Leggi di più su L’Eco di Bergamo del 29 ottobre

© RIPRODUZIONE RISERVATA