«Non siamo violenti, vogliamo rispetto»
Atalanta, la battaglia dei tifosi per bene

Lettera di 13 tifosi col «voucher»: anche per loro niente stadio. «Vorremmo essere più difesi, niente a che fare con gli scontri. Perché la società non ci aiuta?». La risposta di Gandola, direttore de L’Eco di Bergamo: «L’Atalanta sta giocando una partita invisibile».

«Gentile redazione, Vi scriviamo per condividere il malumore e la frustrazione mia (ma, sono convinto, anche di altri centinaia se non migliaia di tifosi atalantini) nell’apprendere dell’ordinanza Prefettizia che vieta l’ingresso agli abbonamenti denominati Voucher rilasciati per le due curve dello stadio. Per prima cosa, ci sembra giusto, vogliamo affermare a voce alta che condanniamo gli incidenti dell’altro sabato: pensiamo sia arrivato il momento di smetterla con questo modo di intendere il calcio e più in generale il vivere civile».

«Ma la piaga sociale del tifo violento esiste e non verrà certo risolta con queste azioni di repressione indistinta, verso tifosi che vivono il calcio ed il tifo per la propria squadra del cuore con sana passione, rispetto ed educazione! Sabato scorso qualcuno di noi era all’estero per lavoro e ha appreso delle notizie degli scontri tramite internet, ma nonostante questo viene punito alla stregua di chi vi ha partecipato... »

«Con questa mail non vogliamo chiedere rimborsi (cosa che peraltro abbiamo già fatto all’indirizzo della biglietteria) ma cercare di spiegarvi che cosa vuol dire essere dell’Atalanta!. Siamo fedeli abbonati atalantini ormai da più di un decennio; frequentiamo lo stadio di Bergamo (Il Comunale, come mi piace chiamarlo) fin da bambini quando andavamo a vedere campioni del calibro di Maradona, Van Basten, Gullit, solo per citarne alcuni».

«Per noi è stato amore a prima vista per i colori nerazzurri e, nonostante qualcuno tra i nostri padri tifasse per la Vecchia Signora, noi abbiamo deciso di tifare per la Dea, per la squadra della nostra città! Sì, perché tifare l’Atalanta è una decisione, vuol dire soffrire ogni volta che la squadra scende in campo ma godere cento, mille volte di più di qualsiasi altro tifoso quando si riesce a conquistare una vittoria!»

«Oggi frequentiamo lo Stadio (o meglio andiamo all’Atalanta, come si dice solo a Bergamo) insieme ai nostri amici, professionisti, bancari, insegnanti, impiegati, operai - padri di famiglia: insieme condividiamo una grande passione oltre che una grande amicizia. Per 90 minuti, ogni maledetta domenica, tutti insieme viviamo le stesse grandi indescrivibili emozioni!»

«Non è nell’intento di questa mail descrivervi tali emozioni, ma l’obiettivo di questa mail è avere risposte dalla società! - Perché non state difendendo i valori ed i diritti dei vostri abbonati?!? - Perché, se come dice la società, essere bergamasco e dell’Atalanta è un valore allora non cercate di difendere questo valore in tutte le sedi possibili?!? - Perché non avete fatto un comunicato verso quei tifosi che ad inizio anno hanno dato, come sempre, fiducia al progetto investendo dei soldi?!?»

«Qualcuno di noi lavora nel marketing di una grossa multinazionale ed era rimasto piacevolmente colpito dalla campagna abbonamenti: “Non puoi più nasconderti”. - Perché la società ora si sta nascondendo e si sta facendo calpestare dal sistema che punisce i deboli per favorire i potenti?!? (stendiamo un velo pietoso sul comportamento che ogni domenica i tifosi giallorossi tengono e sulle figure in campo internazionale che laziali-romanisti-napoletani ci fanno fare....)».

«Non sappiamo chi leggerà questa mail, ma moralmente ci siamo sentiti in obbligo di scrivere perché, per noi tifosi, l’Atalanta è un pezzo della nostra vita e non potevamo permettere a noi stessi di restare indifferenti di fronte ai recenti fatti. Ora diteci come vivere questo momento… disdire l’abbonamento e non andare più all’Atalanta perché non ci sentiamo tutelati, oppure soffrire e aspettare tempi migliori ma andando fieri perché la società farà di tutto per tutelare il suo patrimonio: i tifosi?!? Aspettiamo una risposta a questo grido».
Federico Sbarra
Marco Rovaris
Lorenzo Amaglio
e altri 10 tifosi di Dalmine

LA RISPOSTA DI GIORGIO GANDOLA, DIRETTORE DE L’ECO DI BERGAMO

È vero, andare all’Atalanta invece che allo stadio potrebbe non avere eguali al mondo. Forse in spirito solo a Bilbao, a Glasgow lato Celtic, a Belgrado sponda Partizan, alla Boca di Buenos Aires. È pure possibile che stiamo mitizzando un mondo che il massimo esperto del globo, Bill Buford, chiamò quello dei «Furiosi della domenica». C’è modo e modo di essere innamorati di una squadra di calcio. Il più strano a mia memoria fu quello raccontatomi da Nick Hornby (l’autore di «Febbre a 90») in un’intervista. Voleva comprare casa e la caratteristica numero uno della sua abitazione doveva essere la vicinanza allo stadio dell’Arsenal. Allora chiese all’agente immobiliare di poter piazzare tre registratori nei tre appartamenti in lizza e scelse quello dal quale si sentiva più nitido il boato a un gol dei gunners. «Così so dal vivo come sta andando anche se sono malato e ho la tv rotta».

Lei mi chiede una risposta: continui a soffrire, a tifare e a gioire perché non ne potrebbe fare a meno. Dalla tribuna o dalla curva come fanno i sostenitori veri (dieci anni sugli spalti sono persino pochi). Del ricatto dei violenti si stanno occupando le forze dell’ordine e le istituzioni. Un problema cominci a risolverlo quando lo riconosci come tale, e Bergamo lo sta facendo. Anche per i politici è arrivato il momento di distinguere la fede sportiva dalla pelosa miopia nei confronti dell’illegalità. È intollerabile che un quartiere sia messo sotto assedio ogni due settimane, è intollerabile che la città venga violentata nella sua reputazione dalla guerriglia urbana, è intollerabile che uomini e donne delle forze dell’ordine rischino la vita per una bomba carta e che la collettività debba farsi carico della militarizzazione delle strade, degli autobus incendiati, delle auto distrutte e del terrore in libera uscita. Una curva piena fa parte della nostra cultura popolare. Una curva vuota è frustrazione, deprime lo sport e la squadra. Ma non dimentichiamo mai che se la curva è vuota significa che non è stata capace di isolare e neutralizzare i violenti .

Arriviamo all’Atalanta, vittima numero uno, ex aequo con la città, della situazione. Il suo ruolo è il più esposto delicato. Gli eccessi del tifo li paga da sempre la società, in termini di responsabilità oggettiva e di denaro. Sono fior di centinaia di migliaia di euro; non ci fossero problemi sarebbe la prima ad esserne felice. Anche perché, fino a quando i violenti si aggirano per la città con le spranghe, la politica delle famiglie allo stadio sulla quale Antonio Percassi investe molto rischia di non decollare.

A fronte di tutto ciò, in queste settimane c’è la corsa a misurare in passi-in metri-in yarde la distanza dell’Atalanta dai «furiosi della domenica», a chiederle un forte gesto di rottura come se non fosse naturale e scontata una posizione di condanna. In qualche modo le si chiede di sostituirsi alle istituzioni nel rigore della posizione, alle forze di polizia nel controllo e alla giustizia nel castigo. Direbbe De Gaulle: vaste programme. Non è il suo ruolo.

Anzi il suo ruolo - inserito in una strategia nazionale che sarà buona o cattiva ma è stata decisa dal ministero dell’Interno - prevede la ricerca del dialogo, di un più o meno flebile (e magari non folcloristico) canale dialettico che induca le frange violente ad esserlo sempre meno fino a non esserlo del tutto. È la responsabilità sociale di un club di calcio. È qualcosa che non si vede, che non si esprime con una classifica, che non prevede boati o moviole. Servono nervi saldi, discrezione e capacità diplomatiche. Con la consapevolezza che se vai in fuorigioco lì, è finita.

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