La giovane Atalanta piace al capitano
Stromberg: «Ma i ragazzi vanno gestiti»

Nonostante la voce bassa e i modi eleganti, è difficile che uno come Glenn Peter Stromberg passi inosservato: quando passa da Zingonia, il mondo Atalanta non può che gonfiarsi di emozione.

Stromberg, in questi giorni, è a Bergamo (approfittando della pausa dei campionati e, quindi, anche del suo impegno da commentatore tv) e giovedì ha fatto visita all’Atalanta. Il tema del momento, in casa nerazzurra, è la squadra imbottita di giovani e lui è l’uomo giusto per parlare dell’argomento.

Le piace un’Atalanta così giovane?

«È un fatto che porta in dote una lunga serie di conseguenze positive. Quando un ragazzo si accorge di godere della considerazione dell’allenatore, fa automaticamente un salto in avanti: trova autostima, consapevolezza, il morale si impenna. Capisce che c’è anche lui: si trova a incrociare sul campo alcuni avversari che vedeva solo in tv e capisce che, in quel posto, può starci».

Basta questo?

«Assolutamente no. Si tratta solo di un gradino, anche se importantissimo: poi, il ragazzo deve essere costante, perché gli esami sono tanti».

E si corre il rischio di montarsi la testa?

«Dipende dalle persone: dal carattere del ragazzo, ovviamente, e dall’influenza di chi gli sta intorno. Per questo è fondamentale il ruolo della società, dell’allenatore e anche dei compagni più esperti: tutti devono fargli capire che è stato fatto soltanto un passo, ma la strada è ancora lunga».

È capitato anche a lei?

«Sì, avevo diciannove anni ed ero da poco entrato nel giro della prima squadra, nell’Ifk Goteborg: dopo sei mesi, durante un allenamento, i vecchi del gruppo mi hanno fatto capire che nelle ultime settimane stavo facendo passi più lunghi della gamba. Inizialmente, sono rimasto molto male, ho ribattuto che ero forte, ma poi sono andato a casa, ci ho pensato, ho riguardato le partite e mi sono accorto che avevano ragione».

Cosa le hanno fatto capire?

«Mi hanno spiegato che avevo talento, ma che non dovevo credere di essere arrivato: in quel momento non c’ero. A diciannove anni, una cosa del genere può succedere, specie ad un ragazzo che si trova a debuttare e a trovare spazio con costanza: per questo, l’intervento dei miei compagni fu fondamentale».

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