Sport / Valle Imagna
Venerdì 14 Febbraio 2014
Calligaris, 80 anni di sport
«Rappresenta tutta la mia vita»
È lui in persona lo spot migliore di quanto va predicando da una vita. Il professor Alfredo Calligaris ha 88 anni e dire che li porta splendidamente è un’affermazione assai riduttiva. Abita al settimo piano e, a salire, si fa tranquillamente le scale a piedi.
È lui in persona lo spot migliore di quanto va predicando da una vita. Il professor Alfredo Calligaris ha 88 anni e dire che li porta splendidamente è un’affermazione assai riduttiva. Abita al settimo piano e, a salire, si fa tranquillamente le scale a piedi. È a scendere che consiglia a tutti di prendere l’ascensore.
Il professore è una persona affascinante, deliziosamente dispersiva come tutti quelli che hanno una vita generosissima da raccontare e che, soprattutto, hanno un sacco di progetti nel cassetto. Perché lui ti racconta di Montecarlo, del mago Herrera, della Pattuglia acrobatica, dell’Atalanta di Valcareggi, dell’esodo doloroso della sua gente istriana quand’era ragazzo, ma intanto il telefono squilla per proporgli una serata, un intervento, una sua presenza a un congresso.
Tutti buongustai, dall’altro capo del filo, considerando che si sta parlando del padre della medicina sportiva italiana (e non solo), di una persona a cui, tanto per citare un esempio, Gianni Brera, regalandogli uno dei suoi libri, vergò come dedica: «Ad Alfredo, modellatore di uomini». Nei giorni scorsi, tanto per tenersi in forma, è stato ospite e relatore al Rotary Club Dalmine Centenario.
Calligaris nasce il 29 settembre 1926 a Rovigno d’Istria, pittoresca cittadina di mare tra scogli ed isolotti, a 65 chilometri da Trieste in linea d’aria. Prende il nome di Alfredo, lo stesso del padre, come da 17 generazioni avviene in famiglia. La mamma, Francesca Bacchiaz, di origini montenegrine, discende dalla stessa stirpe della Regina Elena. Papà è un biologo marino e sarà il primo a usare pellicole a colori per le foto subacquee.
Il giovane Alfredo si cimenta in svariati sport.
“Mi piaceva di tutto: nuoto, pallanuoto, salto in lungo, basket. A otto anni, come timoniere, vinsi il campionato italiano di “Due jole con”, un’imbarcazione in cui ogni vogatore aziona un remo. Nove anni dopo ero a Firenze, alle Ludi Juveniles, con un salto in lungo di 5 metri e 20. Posso capire la facile ironia di adesso, ma per l’epoca fu una misura ragguardevole.”
L’anno prima, però, c’è la storia della racchetta da tennis…
“Ah sì, quella è davvero carina. Succede che nel 1942, in visita a Rovigno, arrivò il Duce e un gruppo di giovanotti, me compreso, lo traghettava tra il paese e l’isola vicina. Alla fine arrivò un premio per tutti e a me toccò una racchetta. Ero molto emozionato, lui se ne accorse e cercò di rincuorarmi dicendo che, in fin dei conti, mangiava pastasciutta anche lui come noi.”
E lei ?
“Risposi che a casa si vedeva solo della gran minestra…”
Sei anni dopo quella risposta di un’irriverente innocenza, la tragedia del popolo istriano, cacciati dalle loro case e rispediti in Italia, dove li avrebbe accolti un muro di colpevole diffidenza.
“Era il 5 luglio del ’48, una data che non potrei dimenticare. Senza altro che non fossero i nostri vestiti, ci caricarono su un treno in un vagone di terza classe. Accanto avevo mia sorella, davanti i miei genitori. Mia madre scoppiò in un pianto dirotto. Allora mio padre si tolse un fazzoletto dalla tasca e lo spiegò sulla parte alta del braccio. E disse a mia madre, appoggiandole con tenerezza il viso: “Francesca, vieni a piangere su una spalla di prima classe”. Forse è per questo che, da allora, giro sempre con un fazzoletto bianco in tasca».
E fu così che arrivaste a Trieste.
«Sì, arrivammo alla stazione e poi ci trasferimmo nel Magazzino 18 del porto vecchio di Trieste, ben descritto da una canzone di Simone Cristicchi. Per poco tempo, poi abitammo a Gorizia, dove restai fino al 1961, quando mi sono sposato».
Ha ceduto al fascino di una friulana ?
«Eh no, se sono qui a Bergamo ci dovrà pur essere una ragione. Avevo una barca a vela nel porticciolo di Duino, deliziosa località vicino a Trieste, la più settentrionale al mondo che vanti un clima mediterraneo. Lì ho conosciuto una bellissima ragazza bergamasca, Anna Moscheni, di Almenno San Salvatore. E me ne sono profondamente innamorato».
Adesso, oltre al cavaliere, c’è anche la dama. Manca solo il castello.
«C’è anche quello, sempre a Duino, e mica uno qualunque. E’ dei Turn und Taxis, il ramo tedesco dei Tasso di Cornello, i padri del servizio postale. Qualche tempo prima di conoscere Anna, mi capitò di ormeggiare la barca, vedendo che il tempo peggiorava. C’era un signore che passeggiava nel porto e gli proposi di non avventurarsi oltre e che, se avesse voluto, poteva passare la notte nella mia barca. Io, tra l’altro, avevo casa in paese».
Accettò l’invito?
«Macchè, la mattina seguente trovai la mia barca a vela in perfetto ordine. Ma quando io e Anna decidemmo di sposarci, mi si fece incontro un distinto signore che non riconobbi. Mi ricordò di essere il destinatario di quel lontano atto di cortesia e si presentò. Era Raimondo Turn und Taxis, il principe, e volle ricambiare a tutti i costi. Fu così che ci sposammo nel castello di Duino, nel giugno ’61, ospiti suoi».
E Bergamo?
«C’ero arrivato nel settembre dell’anno prima, sempre per trovare Anna, e avevo incontrato Gianfranco Baraldi, un altro nato il 29 settembre come me e Gimondi, che conoscevo dai tempi di un Italia-Svezia di atletica a Trieste. Io ero già allenatore dei saltatori della Nazionale e lui mi convinse ad occuparmi anche della Libertas Magrini. Fu così che diventai bergamasco d’adozione».
E poi, a seguire, l’Atalanta…
«Mi ci sono avvicinato grazie a Ferruccio Valcareggi, l’allenatore triestino dell’epoca, ma ho iniziato a collaborare successivamente, con Tabanelli, tornando poi in seguito, quando l’allenatore era Corsini. Fu la prima volta che l’Atalanta ebbe un preparatore atletico e, particolare non trascurabile, mi toccò impostare completamente tutto perché di calcio non sapevo assolutamente nulla. Mi ero chiesto di cosa avessero bisogno quei calciatori e mi resi conto che facevano molte cose sbagliate. Un giorno, vedendo i miei metodi, il commendator Vicentini tagliò corto: “Li faccia andare su e giù per la Maresana !” A dire il vero non sapevo nemmeno cosa fosse…».
E, subito dopo, l’Inter del Mago, a cinquant’anni dalla sua prima Coppa dei Campioni.
«Avevo stretto amicizia con Klinger a Monfalcone. Suo fratello Roberto era nello staff medico dell’Inter insieme a Cipolla e Angiolino Quarenghi e così ebbi l’opportunità di collaborare con loro. Ma non potevo risultare nei quadri ufficiali della società né, tantomeno, godere di uno stipendio fisso. Io continuavo ad insegnare all’Esperia, a volte prendevo qualche giorno di ferie per qualche seminario in Spagna. In buona sostanza lo stipendio me lo dava la scuola. Questa situazione durò a lungo, fin quando non se ne accorse Boninsegna che, parlandone con la dirigenza, mi fece partecipare ai premi partita. E quella coppa, anche se ero arrivato da poco, fu una gioia grandissima».
E l’erba di Madrid ?
«Ah, quella è storia del 1967. Nei quarti di finale dovevamo giocare il ritorno col Real il primo marzo. Io ero spesso a Madrid e, nei mesi precedenti, andai a spiare che tipo di erba ci fosse al Bernabeu. Ne parlai con Scarpellini, che si occupava del terreno dell’Atalanta. L’idea era quella di rifare un fondo identico e allenarci sopra. Ma non la realizzammo e non ce ne fu bisogno. L’Inter vinse comunque 2 a 0».
E quei calciatori ?
«Erano una squadra formidabile, allenata da un motivatore che sapeva molto di calcio. Da parte mia dovevo correggere alcune impostazioni: per esempio la corsa di Facchetti, considerando la sua stazza atletica. Domenghini, invece, che già avevo conosciuto all’Atalanta, avrebbe potuto tranquillamente vincere i cinquemila metri».
Un ricordo di Helenio Herrera.
«Quello che mi ripeteva sempre: per formare una squadra vincente ci vorrebbero 4 talenti, 5 che aiutino gli altri a giocare, un portiere e uno che abbia una fortuna (eufemismo) sfacciata. Oltre alle sue convinzioni numeriche più o meno convinte, non dimenticherò mai i suoi allenamenti notturni: ogni tanto, alle dieci di sera, se lo riteneva necessario, ci convocava in campo. Ma come sapeva caricarli lui, non c’era paragone. Affermava in continuazione che il calcio non è uno sport, è un gioco. E, subito prima di entrare in campo, ripeteva: “E adesso, chi sa, sa”. Come a dire che la responsabilità passava a loro».
Oltre all’Inter di Moratti, il dottor Klinger le diede un altro incarico.
«Quello di occuparmi di Felice Gimondi, un atleta straordinario, con pulsazioni e capacità polmonari fuori da ogni regola. Felice aveva un medico personale bravissimo, il dottor Giancarlo Bergamaschi, ma andava seguito da vicino nelle modalità di allenamento. Lui è stato uno degli atleti che più di altri ha capito l’importanza del lavoro d’equipe».
Calcio, atletica, ciclismo e poi?
«Altro ancora, in verità. Anna, mia moglie, mi ripeteva spesso: “Se ti dai all’ippica, li hai fatti tutti…” Sono una persona fortunata, ho avuto tante soddisfazioni da altri sport. Lo sci nautico, per esempio, e poi il golf, lo sci, la pallacanestro. Mi hanno sempre affascinato le discipline che non conoscevo. E, per non farmi mancare nulla, ho preso anche il brevetto da pilota e volato con le Frecce Tricolori».
Se diciamo Castelgandolfo?
«Nei pressi della residenza estiva papale c’è uno dei centri meglio attrezzati per lo sci nautico. In occasione di un campionato, insieme a Franco Carraro, una delegazione del Coni andò in udienza da Papa Wojtyla ed io, in un momento di vicinanza, gli chiesi perché non provasse anche lui, considerando che già se la cavava benissimo sulla neve. Mi rispose che gli sarebbe piaciuto, ma che non glielo avrebbero mai permesso. E che si sarebbe accontentato di vederci dalla sua finestra».
E quella mazza da golf, in bella vista, che accoglie chi entra in casa sua?
«Tecnicamente si chiama “ferro 7” ed è stato un regalo inaspettato quanto gradito di Kevin Kostner, già protagonista del bellissimo “Tin cup”, film in cui interpreta un golfista. Me l’ha presentato Roger Moore, da tempo amico mio e di mia moglie, nel corso di un convegno a Montecarlo nel 2000. Con Mauro Cosmai ho scritto anche un libro sull’interpretazione psicofisica del golf che, troppo spesso, viene relegato a sport elitario o per persone di una certa età».
Montecarlo, però, per lei, è molto altro ancora.
«Attualmente il progetto al quale tengo di più è lo “Star Team for the children”, nato da un’idea del principe Alberto e di Mauro Serra, per raccogliere fondi da distribuire ai bambini più bisognosi in ogni parte del mondo. C’è una squadra di calcio, ma anche un team di sci, e si organizzano gare per beneficenza. In vent’anni si sono raccolti molti fondi e costruito scuole e ambulatori in molti paesi del terzo mondo. Nello Star Team giocano atleti di altre discipline e pochi calciatori. La sfida più sentita è quella contro i piloti di formula uno. Io ne sono il medico ed ho la prestigiosa tessera numero 7».
A proposito di medico: tanti studi in giro per il mondo, ma la laurea?
«Le mie vicissitudini, purtroppo, non mi hanno permesso di bruciare le tappe. E pensare che insegnavo in molte università italiane e straniere, sono stato direttore del Centro studi di Coverciano, da Italo Allodi fino a Italia ’90, responsabile per la preparazione atletica degli arbitri Fifa all’epoca di Franchi presidente e Blatter segretario. Ma, per diventare medico chirurgo, mi sono iscritto a Pavia nel 1974 e laureato regolarmente a 54 anni. Però, a qualcuno che mi dice di non star bene, consiglio sempre di rivolgersi ad un altro».
Quante Olimpiadi?
«Iniziai a Londra nel 1948, ma ero praticamente un ospite, grazie all’amichevole intercessione di Gianni Brera. Da allora, fino a Londra 2012, la prima da turista, tra estive ed invernali credo di averle fatte tutte. Forse ne ho saltate un paio».
E quanti libri?
«Tra scritti e tradotti, direi una trentina».
Una bella soddisfazione recente ?
«Due anni fa a novembre, in Spagna. Vicente del Bosque, in un convegno, mi ha chiamato vicino a sé e ha detto agli allenatori presenti, Mourinho compreso: “Ecco, questo è il signore che ha insegnato a me quello che io ho insegnato a voi”. Mi sarebbe tanto piaciuto condividere queste belle parole con Anna. Ma mi ha lasciato nel marzo del 2007, dopo 48 anni di matrimonio felice. Oggi il mio ricordo va anche a Lucio Parenzan, amico, collega e conterraneo di grande valore. Avevamo un progetto per una scuola internazionale di cardiologia sportiva, ma non se ne fece più nulla. Peccato».
Il professore s’interrompe e concentra lo sguardo sul magnifico panorama che gli regala il suo balcone. È una bella serata di gennaio e Città alta ha il fascino di sempre. Domani sarà un altro giorno da raccontare.
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