Addio al «profeta» Johan Cruijff
Calcio totale, genio ed arroganza

Un’icona di un calcio in bianco e nero che le divise orange della sua Olanda del calcio totale seppero colorare in un modo unico.

Geniale, arrogante, antipatico. Per Johan Cruijff è arrivato il momento del triplice fischio finale: il fuoriclasse olandese è morto in quella Barcellona che l’ha adottato come una seconda patria. Tre volte Pallone d’Oro, aveva 68 anni e da qualche mese combatteva contro un tumore ai polmoni. Era semplicemente genio e arroganza allo stato puro, simbolo di un Olanda libera al di là di ogni regola: la rivoluzione dei costumi, quella sessuale, e pure calcistica. In quegli incredibili anni ’70 che vedono Cruijff alla testa di un Ajax capace di portare a casa 3 Coppe dei Campioni consecutive, e di una nazionale olandese travolgente, emblema di un calcio totale che incanta il mondo. Salvo vincere praticamente nulla: due finali di Coppa del mondo perse su due, e nella seconda in Argentina il «papero d’oro» manco c’è. Per sua scelta, ovvio. Perché Cruijff ha sempre fatto quello che voleva, convinto di una sua superiorità intrinseca sul campo e pure fuori.

Leader nato, rompe con l’Ajax quando nella tradizionale votazione precampionato i suoi compagni di squadra decidono che non sarebbe stato lui il capitano. E se ne va.

Lui, nato a 200 metri dallo Stadio De Meer, storica casa dei lancieri di Amsterdam, che a 5 anni palleggia già in un modo semplicemente mostruoso anche a causa di una malformazione alla caviglia: da qui il soprannome di papero d’oro. Il riferimento al nobile metallo deriva invece dalla sua straordinaria capacità di fare affari: non per niente sposa la figlia di un ricco mercante di diamanti, Cor Coster, che diventa pure il suo agente.

A 13 anni resta orfano di padre, e la mamma viene assunta proprio dall’Ajax, dove lui esordisce a 17, nel novembre 1964. È magrolino (poco meno di 70 chili per 1,76 d’altezza), ma già fortissimo: segna di destro e sinistro, fa assist, è una scheggia, è ovunque.

Tempo due anni e il derelitto Ajax diventa campione d’Olanda, lui finisce in nazionale e diventa il secondo giocatore professionista del Paese, dopo Piet Keizer.

Nel 1969 perde la sua prima finale di Coppa Campioni contro il Milan, ma si rifarà con gli interessi: l’Ajax la vince nel 1971, 1972 e 1973, le ultime due contro Inter e Juventus. Una squadra mostruosa, con giocatori come Krol, Haan, Keizer, Suurbier, Neeskens e Rep, antesignana di quel calcio totale che Rinus Michels comincia a mettere a punto nel 1971 prima di passare al Barcellona prima e sulla panchina della nazionale Orange poi. In Catalogna ci finisce nel 1973 anche il «profeta del goal» (come si definirà nella sua autobiografia), per un miliardo di lire dell’epoca: i Lloyd di Londra assicurano le sue gambe per 2 e mezzo, così tanto per stare tranquilli.

Con i blaugrana debutta solo ad ottobre perché il suocero non trova l’accordo sul contratto: il Barcellona è in fondo alla classifica e lui lo trascina a vincere il campionato. Dopo 14 anni . È già un idolo, diventa un mito quando decide di battezzare il figlio Jordi, patrono della Catalogna, in spregio ai divieti di Francisco Franco che non voleva nomi che non fossero spagnoli. Lui va in Olanda e lo registra all’anagrafe di Amsterdam, poi torna a Barcellona: ad aspettarlo all’aeroporto c’è una folla immensa.

L’uomo è così, istintivo e poco incline alle regole, perfetto per un calcio dove i ruoli si ribaltano e tutti fanno tutto. Nell’Olanda di Michels Jan Jongbloed fa il portiere e il libero insieme, gli altri sono ovunque, corrono più veloce della palla, e quando questa arriva a Cruijff c’è da aspettarsi solo qualche genialata. Ai mondiali di Germania 1974 le squadre sono in ritiro (in quello italiano volavano le sedie...), l’Olanda convive con mogli e fidanzate. In finale ci arriva di filato e sembra inarrestabile: al primo minuto segna già una rete alla Germania Ovest di Kaiser Franz Beckenbauer. Ma i tedeschi non muoiono mai e anticipano quello che Gary Lineker sintetizzerà in modo magistrale qualche anno dopo: «Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince»». E lo fa pure quella volta, facendo inceppare l’Arancia meccanica di Cruijjf e soci.

Una delusione immensa per il «papero d’oro», comunque mai a suo agio in nazionale: due anni dopo manca anche l’obiettivo Europei e si toglie per sempre la maglia Orange. O meglio, la sua maglia... Già, perché Rep, Krol e soci giocano con un completo Adidas, lui ha un contratto con la Puma: per bypassare il problemino Cruijff strappa semplicemente una delle tre strisce nere del completo, emblema del marchio tedesco.

Nel 1976 chiude con l’Olanda, ma prima la sua strada si incrocia con il genio folle di George Best, che racconta così il loro incontro sul campo di gioco: «Era il 1976, si giocava Irlanda del Nord - Olanda. Al 5° minuto prendo la palla, salto un uomo, ne salto un altro, ma non punto la porta, punto il centro del campo: punto Cruijff. Gli arrivo davanti gli faccio una finta di corpo e poi un tunnel, poi calcio via il pallone, lui si gira e io gli dico: tu sei il più forte di tutti ma solo perchè io non ho tempo»

Dopo Barcellona, il dio denaro lo porta negli Usa, in quella specie di Globetrotters del calcio che sono i Cosmos di Pelè e Chinaglia, poi a Los Angeles e Washington. Torna in Spagna nel Levante, fa persino una comparsata in Italia con il Milan al Mundialito, poi torna a casa: all’Ajax.

Gioca con due giovani emergenti, tali Marco Van Basten e Frank Rijkard e vince pure due titoli. Ma serve un finale alla Cruijff, e così nel 1983 chiude la carriera negli eterni rivali dei lancieri, il Feyenoord di Rotterdam del giovane Ruud Gullit. E vince campionato e coppa, ovvio.

Nel 1988 torna al Barcellona, ma in panca. Vince tutto quello che c’è da vincere, compresa la prima Coppa dei Campioni dei catalani, battendo la Sampdoria a Wembley. Il bis sembra a portata di mano ma incontra il Milan di Capello che lo schianta 4-0 ad Atene. È lui a stabilire che ogni squadra Blaugrana deve giocare con lo stesso modulo: il primo pezzo della moderna «cantera» dei catalani lo mette lui.

Che fa e disfa, litiga, prende e se ne va. Lo fa anche nel suo ultimo ritorno a casa con l’Ajax, nel novembre scorso. Qualche mese prima annuncia di avere un tumore, quello che ha ucciso il più grande numero 14 mai visto sul campo. Sì, perché Johan Cruijff ha giocato sempre con quel numero sulle spalle: troppo grande per stare tra l’1 e l’11.

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