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Domenica 07 Aprile 2013
La lettera di Ruggeri per i 100 anni:
i nostri valori immutati nel tempo
«Quando divenni presidente sapevo di assumermi una grande responsabilità di fronte ai bergamaschi. Dopo anni di gloria in cui si era arrivati nelle coppe europee la squadra era in flessione, si era andati in B e si doveva risalire». Lo disse Ivan Ruggeri per i 100 anni del club.
«Quando divenni presidente sapevo di assumermi una grande responsabilità di fronte ai bergamaschi. Dopo anni di gloria in cui si era arrivati nelle coppe europee la squadra era in flessione, si era andati in B e si doveva risalire. Ma il mio timore non era quello di mettere insieme undici giocatori, di risalire subito: il mio problema era quello di essere davvero all'altezza di tanti personaggi eccellenti che mi avevano preceduto. Ho cercato di percorrere la loro strada. Spero di esserci riuscito almeno in parte e per questo devo ringraziare tutta la città; quella schiera di tifosi che ci ha accompagnato ogni domenica allo stadio. Sono le persone più importanti».
È il passo finale della lettera, a firma Ivan Ruggeri, pubblicata sul libro di Elio Corbani e di Pietro Serina per L'Eco di Bergamo, in occasione del centenario della società nerazzurra. Era il 2007, a poco meno di un anno da quella fatale mattina del 16 gennaio. Con queste parole Ruggeri, meglio di chiunque altro, descriveva il suo rapporto con l'Atalanta e la città.
Nessuna enfasi ma tanta umiltà, praticità e disponibilità: una sorta di identikit del personaggio. Attenzione, però, a non sottovalutarlo visto che era consapevole del ruolo e delle responsabilità assunte. Per il bene della società si addossava un sacco di critiche specie quando in ballo c'erano i bilanci. Sognava sì una grande squadra ma teneva i piedi per terra attento, cioè, a non fare salti nel buio.
Del resto era rimasto scottato con l'operazione Comandini-Saudati, ingaggiati a suon di faraonici contratti rivelatisi un fallimento mettendo a rischio la stabilità del club. Proprio questo Ruggeri non si sarebbe mai perdonato. «I nostri cento anni - si legge, ancora, sulla lettera - sono un successo. Siamo un piccolo Davide in mezzo a tanti Golia, abbiamo raccolto più di ogni altra squadra di provincia. Concediamoci, allora, un piccolo peccato di presunzione».
Modestia ma anche palpabile orgoglio, in questo secondo passaggio di Ruggeri. E come non condividerlo? Atalanta e Ruggeri andavano a braccetto quando si parlava di risultati ottenuti con le proprie forze, il senso di sacrificio e la laboriosità che contraddistingue la nostra gente. E ancora «Il calcio, da tempo, è diventato anche spettacolo, divora sempre più soldi, dilapida patrimoni. Di conseguenza si cercano le scorciatoie in campo e fuori. A Bergamo vi assicuro non è così».
Anche qui Ruggeri vedeva lontano, i rischi di uno sport sempre meno tale e sempre più portato verso speculazioni e affari. Ruggeri seppe rimanere uomo di calcio attento al futuro, ma comunque votato al bene dell'Atalanta e dei suoi giocatori. «Saremo provincialotti, fuori dal tempo ma siamo le formichine di un secolo fa. In cento anni l'Atalanta è diventata una società con un bilancio da grande azienda. Però c'è un filo che non si è mai spezzato in questa storia. Quello dei valori immutati nel tempo».
Con quest'altra considerazione, Ruggeri era consapevole di pilotare un jet e non più un velocipede del primo Novecento, ma con dentro la rabbia e la voglia di operare: la «fame», come diceva lui, che ci ha regalato quindici anni intensi di indimenticabili felici emozioni, di cadute ma con immediate risalite. Tre lustri che valeva davvero la pena di vivere e di cui gli saremo sempre grati.
Arturo Zambaldo
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