Spizzichi e bocconi
Lunedì 22 Febbraio 2016
Ricucire la Libia
I rischi per l’Italia
Il numero dei ministri, pare anche su consiglio dell’inviato speciale dell’Onu, il tedesco Martin Kobler, è sceso drasticamente da 32 a 13. Il governo libico di concordia nazionale dovrà passare ora al vaglio delle due autorità con sede rispettivamente a Tobruk e Tripoli, divise al loro interno e diffidenti, se non ostili, l’una verso l’altra.
La prima compagine era stata respinta da Tobruk. Tutti sanno o credono di sapere che il no decisivo venne pronunciato dal generale Haftar, presunto uomo forte del Parlamento e del governo con sede appunto a Tobruk, considerati «legittimi» dai Paesi occidentali. Haftar ha un passato di uomo della Cia, quando viveva in Virginia, ed è legatissimo al Cairo. Proprio il presidente al-Sisi sarebbe intervenuto su di lui dopo quel rifiuto per ammansirlo in vista del secondo governo e del secondo verdetto.
Oltre ai due governi rivali che si contendono il potere in spazi mal definiti, ci sono le postazioni esportate a Sirte dal Califfato, tribù e milizie rimaste fuori dell’accordo negoziato dall’Onu che aspettano il loro momento, potenze regionali e internazionali che perseguono propri obiettivi appoggiando gli uni o gli altri. Speriamo che non avvenga la profezia di Gheddafi: lui chiamava «bestie col turbante» coloro che arrivando da Afghanistan, Algeria ed Egitto facevano preda, con la propaganda di Bin Laden, sui giovani libici e il Mediterraneo sarebbe divenuto il mare del caos.
In Libia non vale la rivalità fra sciiti e sunniti che avvelena ulteriormente il quadro della guerra in Medio Oriente facendo pensare a una specie di conflitto civile nel mondo islamico. Dall’una parte e dall’altra sono in campo governi che si richiamano alla Sunna e con sudditi in maggioranza sunniti: Egitto e Arabia Saudita con Tobruk, Turchia e Qatar con Tripoli. E, finalmente, in Libia non sono troppo presenti né la Russia né l’Iran, percepiti come protagonisti che tendono a giocare la partita in prima persona secondo un proprio disegno particolare. Quello libico è un islam moderato: la religiosità sunnita è presente ma prevale la dimensione sociale mentre a livello politico rifiuta la dimensione di stampo qaidista o fondamentalista. I vantaggi della questione libica finiscono qui. La Libia continua a presentare divisioni profonde che dipendono dalla storia e dalla geopolitica. Il lungo regime di Gheddafi aveva tenuto conto degli ostacoli senza affrontarli, accoppiando a una leadership estremamente personalizzata al vertice un sistema di gestione sul terreno che in teoria si sminuzzava in tanti comitati detti popolari quante erano le sedi decisionali. Nessuna elezione si è mai svolta a livello nazionale nella Libia fra il 1969 e il 2011. La «guida» suprema non aveva bisogno di un avallo di questo genere e un eventuale Parlamento poteva diventare un mosaico di tipo tribale. L’esperienza degli ultimi cinque anni ha confermato che le linee di frattura sono più numerose e più resistenti dei fattori di unione. La Libia non possiede neppure una capitale che goda del riconoscimento unanime – e della forza d’attrazione – per tutti. Se il governo supererà la prova dell’investitura e sarà accettato sia da Tobruk che da Tripoli, dovrebbe iniziare la fase più ardua: la ricomposizione di una Libia unita o almeno governata da una sola autorità. Si confida nella convenienza primaria di deporre le ostilità interne per far fronte comune contro lo Stato islamico. La propaganda dei jihadisti, che godrebbero di qualche appoggio fra le componenti tribali o i ceti sociali che rimasero fedeli a Gheddafi fino all’ultimo, potrebbe trovare in una presenza «straniera», quale che sia e con qualsiasi mandato, un argomento in più a sostegno della propria «anti-crociata». Il Mediterraneo è oggi sempre più presente nell’agenda di tutte le cancellerie mondiali ma per noi italiani è spazio significativo: canale di Sicilia, golfo della Sirte e litorale libico. Oltre ai rischi energetici quest’area è sempre più animata da una migrazione sempre meno controllabile che si aggraverà nella misura in cui non si è capaci di europeizzarla.
La disponibilità dell’Italia – forse troppo rivendicata e troppo esibita – a capeggiare l’azione internazionale, che nessuno può dire adesso se sarà di peace-keeping o di peace-forcing, con i diversi costi e contraccolpi dell’una o dell’altra, rischia di evocare, quanto meno nella sensibilità di chi nutra i residui di una fierezza nazionale manomessa dallo sconquasso della «primavera», il ricordo odioso del passato coloniale. La variabile anti-coloniale è già utilizzata ampiamente dalle forze islamiste nel Sahel contro la Francia. Sia nell’attentato di Bamako che in quello di Ouagadougou, che hanno avuto come obiettivo alberghi di lusso frequentati da stranieri, per lo più occidentali (qualcosa del genere è successo anche a Tripoli), è emerso il revanscismo nei confronti di ciò che appare come un «ritorno» della Francia nel suo antico impero coloniale traendo spunto dalla lotta al jihadismo. I primi a intervenire, quando erano ancora in corso le sparatorie nelle capitali di Mali e Burkina Faso, sono state proprio le forze speciali francesi.
Le ambizioni di grandeur della Francia, riaffiorate prima con Sarkozy e poi con Hollande, esulano certamente dagli orizzonti più misurati della politica italiana. Tuttavia, nel 1970, quando, per celebrare il primo anniversario della rivoluzione, Gheddafi volle regolare i conti con l’imperialismo e chiuse le basi militari di Inghilterra e Stati Uniti, il «piccolo colonialismo» dell’Italia pagò a sua volta uno scotto doloroso con l’espulsione degli ultimi coloni.
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