L'ex ludopatico racconta:
non giocate neanche un euro

«Il vero dramma è stato giocare quel primo euro. Lo voglio dire a tutti: non giocate mai, nemmeno per provare, nemmeno un solo euro». Mirko (il nome è di fantasia) ha 23 anni e ha iniziato a giocare alle slot quando ne aveva 18. È diventata una malattia.

«Il vero dramma è stato giocare quel primo euro. Lo voglio dire a tutti: non giocate mai, nemmeno per provare, nemmeno un solo euro». Mirko (il nome è di fantasia) ha 23 anni e ha iniziato a giocare alle slot quando ne aveva 18. È diventata una malattia, ma da qualche mese è in cura al Centro Aga di Pontirolo.
Mirko, come mai ha iniziato a giocare?
«Per colpa di un mio amico, definiamolo così, che ha insistito. Mi diceva di giocare perché la macchinetta era "piena". Insisteva: "Metti solo un euro, vedrai che vinci". A quel punto ho inserito quel maledetto euro...».
E l'ha perso...
«Almeno. Il problema è che ho vinto. Quattrocento euro. E mi sono convinto che mi sarei potuto arricchire così. È diventata una malattia». Cioè? «Mi alzavo la mattina e avevo già in mente di andare al bar a giocare alle slot, sempre pensando di guadagnare».
A quel primo euro quanti ne sono seguiti?
«Un annetto dopo arrivavo anche a giocare 50 o 100 euro al giorno».
E quanto stava al bar?
«Anche quattro o cinque ore. Il problema è che, quando poi capitava di vincere 100 euro, non ero contento: mi spostavo alla slot accanto e li spendevo tutti».
E in casa non l'aveva mai detto?
«No. E ne stavo molto male: tenevo nascosto tutto ai miei e alla mia ragazza. Una situazione che non fa stare bene».
Ma quanto spendeva al gioco?
«Beh, per intenderci: c'è stato un mese in cui ho vinto 5 mila euro. Ecco, sono durati due settimane. Ho sempre lavorato: prendevo lo stipendio l'8 del mese, toglievo la somma da versare in casa e la rata della macchina e quello che restava lo giocavo. Diciamo 400 euro al mese: di questi, 300 li mettevo nelle slot subito il primo giorno...».
E i giorni successivi?
«Magari avevo un fondocassa o chiedevo qualcosa a mia mamma o alla mia fidanzata, dicendo che mi servivano per altro. Per fortuna non ho mai chiesto prestiti a banche. Anzi, proprio quando ho pensato che avrei dovuto chiedere prestiti, è stato il momento in cui mi sono convinto che dovevo chiedere aiuto».
Andava sempre nello stesso bar?
«Sì, sempre lo stesso».
E i gestori non le dicevano nulla?
«Mi dicevano di far giocare anche gli altri. Però alla fine loro ci guadagnano, dunque più di tanto cosa dovevano dirmi?».
E in casa e alla ragazza cosa diceva?
«Bugie su bugie. Lasciavo la ragazza a casa alle 19 e andavo al bar due o tre ore. Lei pensava fossi a casa: si era insospettita, ma stentava a credere che potessi spendere qualcosa come 100 euro al giorno alle slot».
Ma, nonostante tutti i soldi persi, giocava ancora davvero convinto di vincere?
«Sì. Era un pensiero fisso: il fatto di aver perso non era contemplato, era come se venisse rimosso».
Cosa vorrebbe dire a chi ancora è travolto dal gioco compulsivo?
«Di non giocare mai nemmeno un solo euro. La vera rovina è quella».
E il suo «amico» che l'aveva convinta a giocare quel primo euro lo vede ancora?
«Sì, ma non è più mio amico. Ci salutiamo e basta. Lui gioca ancora».
Lei adesso come sta?
«Ho iniziato a vincere quando sono entrato in questo centro. Un anno fa, dopo quattro giorni non avevo più un soldo dello stipendio. Oggi arrivo a fine mese. Non si vince con le macchinette, solo lavorando».
Eppure i bar continuano a tenere le slot...
«Sì, rovinando un sacco di persone, cercando di fare soldi facili».
Quando è stato il momento in cui si è reso conto che era un problema serio?
«A un certo punto preferivo stare a giocare al bar che con la mia ragazza. E ho pensato a un prestito. Allora ho detto basta».
Dunque non si è convinto a smettere a seguito di grosse perdite?
«No, quando perdevo tanto, pensavo che la mattina dopo sarebbe andata meglio».
Nel bar che frequentava c'era sempre la stessa gente a giocare?
«Sì, alla fine è gente che finisci col conoscere. Tutti con lo stesso problema: un circolo vizioso».
Ogni tanto adesso ci torna ancora?
«Sì - ride -, ma solo a bere il caffè. Ho cercato di convincere i miei "ex colleghi" giocatori di venire a farsi curare, ma è inutile. Deve nascere da loro».
Come ha conosciuto il centro di recupero della Comunità Aga?
«Proprio al bar, dalla pubblicità su L'Eco, che ringrazio per questo e per la campagna "no slot". Però poi ho fatto telefonare a mia mamma, che ha organizzato il primo colloquio. Ne è seguito un secondo, durante il quale è stato stabilito il mio livello di dipendenza. Ne ho poi parlato con la mia fidanzata, che all'inizio l'ha presa molto male perché non pensava che fossi davvero malato. Poi però ha capito e ora mi sta vicino: l'aiuto dei familiari è fondamentale».

Fabio Conti

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