Regioni e carrozzoni
Sprechi in rima

È difficile stare dalla parte delle Regioni nel conflitto da loro aperto con il governo centrale. A quarantacinque anni dall’elezione dei Consigli e delle Giunte regionali, il bilancio della loro azione appare ormai negativo. In che cosa hanno fallito? Sul terreno della riforma dello Stato e su quello della spesa pubblica. Il centralismo monarchico-liberale aveva puntato sulle province, costruendo 15 «compartimenti» regionali solo per ragioni statistico-economiche. Il federalismo di Gioberti, Cattaneo, Ferrari ne uscì sconfitto.

Fu il pensiero politico cattolico di Sturzo, Miglio e Gonella a riproporre uno scenario alternativo: quello per cui le Regioni – la denominazione compare solo nel 1912 – dovevano realizzare un decentramento non solo amministrativo, ma istituzionale dello Stato. La sinistra, invece, rimase centralista fino agli anni ‘50. Dalla Costituente uscirono 19 Regioni (il Molise sarà deciso solo nel 1963), che però entrarono in funzione solo nel 1970: la Dc temeva il cuneo rosso di Emilia-Romagna e Toscana, piantato in mezzo all’Italia. L’ultima riforma costituzionale delle Regioni è quella del Titolo V del 2001. Dal 1970 hanno funzionato da articolazioni del centralismo statale e sono diventate costosi moltiplicatori dei ceti politici.

La spesa regionale, vincolata centralmente quanto alla destinazione e alle somme complessive, ma distribuita dai ceti politici locali, è aumentata a dismisura. Nell’ultimo decennio è cresciuta di 89 miliardi, non solo a seguito delle competenze riconosciute dal nuovo Titolo V. Il fatto è che lo Stato paga a piè di lista. Ovviamente, con enormi differenze: in Lombardia la spesa regionale pro capite al consumo finale è sui 4.000 euro annuali, in Sicilia arriva quasi a 5.500, in Trentino quasi a 7.500, in Valle d’Aosta a 9.000. Agli occhi di molti cittadini le Regioni sono diventate enti inutili, buoni solo a foraggiare il personale politico. Tutta colpa dei governatori regionali? No, alla base sta una filosofia centralista che tutti i partiti e i loro elettori condividono, salvo poi scagliarsi contro gli effetti del centralismo. Come uscirne? Finora l’unico tentativo serio, ma ahinoi passeggero, è stato quello di Bossi negli anni 90, quando seguendo i consigli di Gianfranco Miglio, ne riprese l’ispirazione federalista. Nel 1945, sul giornale cattolico Il Cittadino, Miglio aveva proposto per l’Italia un modello svizzero, fatto di sei Cantoni, dotati di potere di imposizione fiscale. In Svizzera ci sono tre soggetti di imposizione fiscale: il Comune, il Cantone, lo Stato. Ciascuna istituzione ne risponde ed è controllata dai cittadini. L’autonomia di imposizione fiscale rende responsabili tanto i politici quanto gli elettori. Un federalismo non fiscale si riduce a pura irresponsabilità nella gestione della spesa, sia dei cittadini sia dei loro eletti.

Negli anni 90 la Fondazione Agnelli aveva elaborato un modello di federalismo, che prevedeva solo undici regioni. Erano, del resto, undici anche le Regioni militari-amministrative dell’imperatore Augusto! Ma il Titolo V ha ingarbugliato i fili, ha generato conflitti di competenze, non ha delineato la base economico-sociale del federalismo: la tassazione locale. Come uscirne, dunque? Con le macro-Regioni, con il federalismo su basi fiscali a geometria variabile, e con un corrispondente centralismo a geometria variabile, che premi le (attuali) Regioni virtuose e imponga costi standard a tutte, a partire da quelli della sanità. La via dei tagli lineari – che i governatori contestano - è più comoda tecnicamente per lo Stato centrale, ma è iniqua. Alla fine si può discutere per anni di architetture istituzionali, ma la questione centrale resta quella della visione centralista e assistenziale, che elettori e partiti hanno dello Stato. Il centralismo è ormai un letto di Procuste, costoso, deresponsabilizzante, corruttibile. Il regionalismo è fallito, perché è rimasto sui confini del federalismo.

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