Alpini 2010
Lunedì 22 Febbraio 2010
Berretto al posto del cappello? Mai
Così fu vinta la guerra della penna
Fu mezzo secolo fa, a metà Anni Cinquanta. Qualcuno nelle alte sfere delle forze armate stabilì che quell'anacronistico copricapo andava eliminato. L'esercito italiano era entrato a far parte della Nato e, tra mille problemi, era in corso il suo adeguamento alle nuove esigenze dell'alleanza militare. Le armi erano per buona parte di derivazione americana e così anche le divise. Gli alpini andavano in giro con il pesantissimo «Garand» (fucile che si poteva dire l'equivalente moderno del vecchio 91), c'erano ancora i muli e l'addestramento si fondava soprattutto su lunghissime marce, come avevano sempre fatto dalla loro nascita.
Un giorno arrivò la decisione: via il cappello con la penna simbolo di altri tempi, al suo posto un berretto in panno con visierina, tipo norvegese, immediatamente battezzato «berett de stuped»: per le penne nere solo uno stupido poteva andare in giro conciato in quel modo. A dir il vero non si trattava di una vera e propria soppressione del classico cappello, che sarebbe rimasto solo per le occasioni ufficiali, come parate e cerimonie ufficiali. Per il resto, in caserma e sul campo, solo copricapo floscio, e via così. Non andò come si pensava.
Nelle caserme la resistenza degli alpini, a partire dagli stessi ufficiali, su tenacissima. Alla fine la vinsero loro: cappello alpino e berretto in panno convissero nei reparti, anche se l'impiego del secondo fu degradato a più umili mansioni. La penna si salvò. E ancora oggi non sfigura, soprattutto per le qualità di chi la porta, dove gli alpini svolgono la loro missione: Bosnia, Iraq, Afghanistan.
Facciamo uno stop e andiamo indietro di un'altra cinquantina di anni, questa volta in una direzione ben precisa. A Bergamo, meglio ancora sul Canto Alto, che con la sua cuspide si innalza inconfondibile alle spalle della città. Per essere precisi: l'anno è il 1906, protagonista il battaglione Morbegno del 5° Reggimento. A Bergamo, città alpina per eccellenza molto più allora di oggi, le penne nere non potevano mancare. Facevano parte del presidio ed erano ospiti della storica caserma Montelungo, che era più o meno simile all'edificio attuale.
Il battaglione occupava l'ala verso la torre del Galgario, da dove gli alpini uscivano per le loro marce, andando su a giù quasi quotidianamente lungo le pendici della Maresana e del monte Canto. Allora le divise indossate dai soldati italiani erano ancora quelle del vecchio esercito sabaudo: giubba turchina e pantaloni bianchi; di sicuro effetto scenografico nelle parate, ma un disastro nell'impiego pratico. Più o meno allo stesso modo erano vestiti gli altri eserciti europei, i cui comandanti non avevano ancora fatto tesoro della lezione che arrivava dal conflitto tra Russia e Giappone.
In Manciuria i nipponici avevano prelevato campioni di terreno e poi avevano fatto confezionare divise dello stesso colore. Quando balzavano all'attacco gridando «Banzai!» i soldati giapponesi quasi si confondevano con l'ambiente grazie alle loro divise. Fu una delle ragioni, non secondaria, della loro vittoria. A questo proposito le conclusioni di un generale francese furono illuminanti: i giapponesi avevano vinto grazie anche alla loro invisibilità. Altro che soldati con la divisa a due colori, piene di nappine e di lustrini: un bellissimo bersaglio per i tiratori nemici.
A questa riflessione giunse Luigi Brioschi, noto alpinista e grande appassionato di montagna, nell'osservare gli alpini in cui si imbatteva nelle vallate e tra le cime delle Alpi. Brioschi era un personaggio non comune: presidente della Sezione di Milano del Club alpino italiano (è lo stesso al quale è dedicato il noto rifugio sulla Grigna), godeva di molta considerazione e conosceva un buon numero di ufficiali nei reparti alpini. Per professione (ingegnere) e carattere, Brioschi era solito dare una soluzione pratica ai problemi. Per lui quella divisa era troppo visibile, un autentico invito per il tiro al bersaglio. Bisognava porvi rimedio. Cambiandola, ad esempio.
Del tutto inaspettatamente il presidente del Cai milanese affrontò l'argomento al congresso del Club Alpino che nel 1906 si teneva a Verona. Considerata l'autorità del personaggio, l'assemblea lo ascoltò con attenzione, ne condivise anzi le conclusioni tanto più che lo stesso Brioschi aveva approfondito l'argomento analizzando le divise degli eserciti europei. Ma quando cercò di convincere i delegati che il Cai doveva farsi promotore di uno studio, non ottenne altro che un plauso. L'ingegnere decise allora i passare all'azione sborsando di tasca propria 500 lire (a quei tempi era una bella somma) con cui acquistare del panno di colore idoneo e per sostenere i primi esperimenti.
Ottone Brentani, autore nel 1907 di un libro sull'argomento, scrisse che Luigi Brioschi era convinto che le divise degli alpini erano «esageratamente vistose» offrendo «un bersaglio troppo distinto e sicuro»: dovevano «riuscire meno visibili, più comode, più eleganti, più alpine». Gli esperimenti vennero compiuti a Bergamo perché proprio nella nostra città Brioschi trovò orecchie disposte ad ascoltarlo. Allora il battaglione Morbegno era comandato dal tenente colonnello Donato Etna, il quale aveva già avuto occasione di ascoltare le argomentazioni del Brioschi, tanto è vero che nel 1905 a Foppolo c'erano già state alcune prove. Dagli esiti sicuramente interessanti, se il 2 aprile dell'anno successivo furono ripetute con criteri tali da offrire indicazioni precise a proposito di quanto andava sostenendo l'ingegner Brioschi.
Gli esperimenti vennero compiuti sulle pendici del Canto Alto, dove vennero collocate delle sagome, alcune con le divise tradizionali degli alpini, giubba turchina e brache bianche, altre invece di color grigio, a distanze differenti: 350, 450 e 600 metri. Quattro ufficiali e otto soldati del Morbegno, scelti per la «vista eccellente», si appostarono e in breve fu evidente come le argomentazioni del Brioschi fossero più che valide. Dopo quattro minuti di osservazione uno degli ufficiali riuscì a scorgere solo la sagoma grigia più vicina; invece quelle con i colori bianco-turchini furono individuate da tutti, ufficiali e soldati, nel giro di pochi secondi. Si passò poi all'atto pratico.
I tiratori scelti del battaglione spararono alle sagome con i colori tradizionali facendo centro in media otto volte, contro un solo colpo a segno sui bersagli di colore grigio. Poteva bastare? E no, perché c'era tutta una gerarchia da convincere. Per scrupolo il tenente colonnello Etna fece eseguire ben 200 prove riuscendo a ottenere i pareri favorevoli del suo superiore diretto, il colonnello Stazza comandante il 5° Reggimento, e dell'ispettore generale delle truppe alpine, generale Frugoni. Bisognava poi superare gli ostacoli politici. Di questo si incaricò, debitamente convinto da quello che aveva visto, il senatore Vigoni: passo dopo passo la pratica arrivò sulla scrivania del ministro della Guerra, il quale diede l'autorizzazione, meglio l'ordine.
Sempre grazie alla disponibilità, e generosità, dell'ingegner Brioschi, un plotone (40 uomini) della 45ª compagnia del Morbegno avrebbe dovuto essere equipaggiato con la nuova uniforme. Vennero subito messi al lavoro sarti, calzolai e cappellai del reggimento per vestire il reparto che dal colore della nuova divisa venne chiamato «plotone grigio» (poi a questo grigio cinerino fu aggiunta una sfumatura verde: da ciò lo storico grigioverde). Ed ecco come si sarebbe presentato il «nuovo» alpino. Camicia, panciotto, colletto, cravatta, giacca, calzoni corti, calzettoni, tutti di color grigio; cappello di feltro, molle, color caffè chiaro (poi grigio-creta).
Da questa «uniformità» erano banditi nel modo più assoluto nappine bianche, trofei, bottoni lucidi, distintivi, piume. Un passo indietro, ed esaminiamo meglio un dettaglio: il cappello avrebbe dovuto essere di feltro, molle, e andavano abolite le piume: ossia addio alla bombetta rigida con tanto di penna. Gli alpini non avrebbero più avuto il tradizionale cappello, sostituito da un copricapo con la piega in mezzo e un'ala rialzata, sul tipo di quello portato dai boeri durante la guerra contro gli inglesi e, più recentemente, alzato dai soldati australiani che combatterono in Europa. Così rivestito il plotone grigio venne presentato ufficialmente in occasione del campo estivo.
Il reparto fu passato in rassegna a Tirano il 24 luglio 1906 e subito iniziarono gli esperimenti sotto gli occhi di alti ufficiali. Agli alpini grigi e a quelli bianco-turchini fu ordinato di prendere posizione tra i vigneti che coprivano i pendii: i primi a 450 metri di distanza non si notavano più, gli altri a un chilometro e mezzo si vedevano ancora benissimo. Gli alti gradi ne furono convinti. Ma il nuovo equipaggiamento doveva essere sottoposto a un'altra prova: quella della praticità. Com'era nelle tradizioni dell'arma, i «grigi» si misero in marcia: da Tirano a Bormio. Non conosciamo il giudizio degli ufficiali, mentre quello degli alpini ci viene offerto dalle pagine dell'«Illustrazione Italiana» nell'agosto successivo: «Ed eccoli a Bormio, sani, ilari e freschi, entusiasti del loro vestito, che ha persino la qualità dell'oro: quella di non pigliar macchie».
Fatta la debita tara alle parole del giornalista, la lunga marcia doveva essersi conclusa in modo soddisfacente. La nuova divisa aveva passato gli esami. Durante il trasferimento avvenne qualcosa che le cronache non registrarono ma che fu fondamentale per la storia delle penne nere. Strada facendo venne messo da parte il cappello floscio e gli alpini recuperarono il vecchio cappello con la penna. Quando il plotone grigio del Morbegno tornò a Bergamo assieme all'intero battaglione, tutti gli alpini potevano inalberare la penna di cui erano fieri e dalla quale non si sarebbero mai più separati.
La divisa grigioverde, salvo qualche rimaneggiamento, fu ancora quella che indossarono nella prima e che continuarono a portare anche nella seconda guerra mondiale. Il cappello a bombetta invece lasciò il passo a quello in panno. I bergamaschi che andarono a combattere tra i ghiacci dell'Adamello calzavano già il copricapo divenuto simbolo delle truppe alpine e che è rimasto tale e quale anche oggi.
Pino Capellini
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