Tagli a tempo

Abbiamo finalmente capito cosa significa per certi dipendenti pubblici la formula «contratto a tempo determinato». Significa che i tagli voluti dal governo dureranno due anni, poi tornerà il bengodi come prima.

Il paradosso riguarda i mitici addetti, tecnici e consiglieri della Camera e del Senato che non riescono a farsi una ragione della pur timida spending review a loro carico. Niente di personale, l’Urlo si occuperebbe volentieri d’altro, ma per capire i meccanismi perversi della pubblica burocrazia è sufficiente osservare l’acquario di Montecitorio. Dove eravamo rimasti? Al taglio delle altissime prebende, all’introduzione del tetto di 240 mila euro, che pure non sono noccioline per chi continua a guadagnare in media più del triplo dei colleghi britannici. Durante le vacanze di Natale, con un blitz da Prima Repubblica, il collegio d’appello ha accolto il ricorso dei dipendenti contrariati per la potatura di stipendi e indennità. E con uno slalom speciale del diritto degno delle seconde manche di Gustavo Thoeni ha stabilito che il contestato tetto varrà solo sino a fine 2017.

Una revisione di spesa a scadenza come le mozzarelle non s’era mai vista e tanto meno applicata. Il sotterfugio, denunciato dal formidabile Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, è paradigmatico di un mondo che proprio non vuole privarsi dei privilegi. Spalleggiato dalla politica, perché il collegio d’appello è formato da Mario Guerra e Giuseppe Lauricella (Pd), Giuseppe Galati (ex forzista passato con Verdini), Gaetano Piepoli (Centro democratico) e dal grillino Alfonso Bonafede che si è rifiutato di sottoscrivere la sentenza. Ora per impedire il «taglio a tempo» sarà necessaria un’altra legge. Con dispendio di tempo e di energie. Però la chiamano efficienza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA