Mister gaffe

Ha insultato nell’ordine: le donne, i giocatori di colore, gli ebrei e gli omosessuali. Se fosse un presentatore Tv potrebbe aspirare a svolgere il compito di vice-banditore a un mercatino rionale. Se fosse il presidente della Repubblica starebbe facendo le valigie o salutando i corazzieri fuori dal Quirinale.

Ma è Carlo Tavecchio, ineffabile presidente della Federcalcio, quindi continua a stare senza problemi dentro i panni del numero uno. «Mi hanno frainteso», «Sono stato strumentalizzato», «Hanno manipolato le mie parole»; dopo ogni terrificante gaffe la giustificazione è sempre la stessa, cambia il lessico ma non il significato. Eppure nessuno lo sposta. Il presidente del Coni, Malagò, si limita a un imbarazzante: «Non possiamo commissariare la Federcalcio».

Ed è curioso che si possa commissariare il Comune di Roma, ma non il palazzo del pallone. Il premier Renzi, che per molto meno mandava twitter della collezione #staisereno, sbuffa: «Ne combina una al giorno, così non si può andare avanti», ma si guarda bene dall’intervenire. Ufficialmente perché non ha facoltà di lanciare dalla finestra un manager così impresentabile, in realtà perché l’autogoverno del pallone è un tale crocevia di potere e denaro che nessuno osa metterci le mani per paura di rimanere invischiato.

Così, fra una battuta da caserma e l’altra, Tavecchio governa con un pallone a spicchi sottobraccio come un monarca centrafricano degli anni Settanta. E il suo grande elettore Claudio Lotito bivacca in Parlamento per creare consenso. Gianni e Pinotto facevano ridere di più.

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