Lo Stato appostato

Per scovare i terroristi è necessario sbirciare nei computer di tutti i cittadini? La domanda resta in piedi e la risposta non è automatica. Fossimo negli Stati Uniti o in Germania non avremmo alcun problema a urlare «Sì, fatelo pure».

Ma non essendo nati ieri e neppure l’altroieri immaginiamo dove andrebbe a parare una legge simile – senza limitazioni o obblighi procedurali – in questo meraviglioso Paese nel quale non è necessario aver commesso un reato per essere intercettati. Basta aver mangiato un bignè lontano dai pasti.

Ecco perché ci sembra che bene abbia fatto il governo a stoppare l’emendamento del decreto antiterrorismo che prevedeva «l’acquisizione di dati da remoto» da parte delle forze dell’ordine. Vale la pena valutare pro e contro essenzialmente per due motivi. Il primo riguarda le indagini: già ora gli esperti di cui dispone ogni settore investigativo sono in grado di controllare, verificare, intercettare, pedinare sulla rete chi naviga dalla parte sbagliata del web.

E violare siti sospetti. Ci riescono gli hacker, figuriamoci i tostissimi agenti speciali. Il secondo motivo riguarda il cittadino comune, che in nome del rafforzamento delle misure preventive antiterrorismo (sacrosante) rischia di vedersi svellere dalla legge ogni porta che difende la sua privacy.

«Acquisizione di dati da remoto». Quali dati? Anche operazioni bancarie o lettere all’amante di persone estranee alle inchieste per ritrovarsi il tutto sui giornali con qualcuno che fa la morale nella colonna di fianco? Vorremmo uno Stato sicuro, non uno Stato guardone.

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