La carezza
in un pugno

«Me, we». Io, noi. La richiesta di uno studente quel giorno ad Harvard, al termine di una conferenza fra le più affollate nella storia dell’ateneo, fu: per favore ci reciti una poesia. Lui la inventò: «Io, noi». Fu poi certificata come la più breve del mondo dalla Bartlett Association. E mentre la declamava in quei pochi secondi, Muhammad Alì racchiuse le cinque dita della mano in un pugno, sorridendo.

«Io, noi» vale a dire l’essenza di una vita solo apparentemente solitaria, individualista, eccentrica, racchiusa nel perimetro delle corde di un ring, quando ancora esisteva la boxe. In realtà è stata la vita di un leader che ha combattuto e vinto perché ha sempre avuto alle spalle un popolo. Quando si rifiutò di andare a combattere in Vietnam («I vietcong non mi hanno mai detto sporco negro») rappresentava l’America che considerava assurda quella guerra e ancora più assurde le discriminazioni razziali.

Quando sul ring di Kinshasa fu protagonista del più affascinante evento sportivo del Novecento, rappresentò tutta l’Africa che combatteva il colonialismo. Foreman cominciò a perdere all’aeroporto, presentandosi con uno stupendo cane lupo, senza sapere che era simile a quelli usati per rastrellare gli schiavi. Durante il match non ci fu spettatore che non parteggiasse per Alì e che non gli abbia regalato una stilla di energia.

«Io, noi» filosofia d’una vita. Fuori dall’individualismo degli anni Ottanta e Novanta possiamo imparare a guardare l’altro con speranza, a tendere e ricevere la mano, a farci popolo per non combattere da soli. Quando comparve, malato e trascinando i piedi, nello stadio di Atlanta come ultimo tedoforo, ancora una volta a tutti (anche a noi in quel silenzio irreale) tremò il mento. Non tremò il suo spirito, quello non ha mai tremato.

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