Incalza lo scandalo

Questione di accenti, più che Mose si sentiva Mosè. Parliamo di Ercole Incalza, l’uomo dei dieci comandamenti delle Grandi Opere, colui che s’era assiso sul vecchio e sul nuovo testamento delle Infrastrutture attraversando indenne trent’anni di trappole della politica, 14 volte inquisito e 14 volte assolto.

Meglio chiarirlo subito perché l’inchiesta che potrebbe togliere la poltrona da ministro a Maurizio Lupi è tutt’altro che chiara e in questi casi gli sviluppi possono andare in molte direzioni. Incalza imparò il mestiere di funzionario con Craxi e Signorile, poi si radicò con Berlusconi, Prodi, ancora Berlusconi, Monti, Letta e Renzi. Ebbe la fiducia dei ministri Lunardi, Matteoli, Passera e due volte Lupi. L’unico a mostrare diffidenza fu Tonino Di Pietro, che gli revocò l’incarico quando dirigeva il dicastero dei Trasporti «perché aveva dimostrato scarsa limpidezza di rapporti, al di là delle inchieste giudiziarie».

Lo diciamo da tempo, il problema non è solo politico, ma è amministrativo e riguarda i veri inamovibili del palazzo del potere: i grand commis, i burocrati che scrivono le leggi, dominano i ministeri e si indignano se qualcuno osa ritoccare al ribasso le loro prebende. Trascorrere 30 anni a veder passare appalti è pericoloso. E se le ultime grandi opere - ricostruzione de L’Aquila, Mose di Venezia, Expo e adesso Tav - sono state toccate dalle tangenti, significa che prima del sistema vanno cambiati gli uomini. Innocenti o colpevoli che siano.

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