Democrazia libica

L’hanno condannato a morte, ma la sentenza non è riconosciuta dal tribunale ufficiale e lui è in mano ai nemici di chi lo ha condannato. Il dead man walking è Saif al Islam (la spada dell’Islam), figlio secondogenito di Muhammar Gheddafi, il rais massacrato nel 2011 dai ribelli rivali in quella che l’Occidente - con una botta di miopia collettiva da premio Nobel - aveva definito Primavera libica.

Era l’inizio della balcanizzazione del Paese arabo a noi più vicino, ma non siamo arrivati a capirlo e sotto la spinta euforica di Nicholas Sarkozy già in versione Louis de Funès abbiamo pensato che la democrazia avrebbe attecchito come un raro fiore nel deserto. Così raro da seccare in poche settimane.

Quella stagione torna d’attualità per questa assurda faccenda. Il secondogenito di Gheddafi è stato condannato a morte (fucilazione) dai ribelli di Tripoli per genocidio, ma il governo di Tobruk non riconosce la sentenza . E peraltro l’erede del rais non è neppure nella disponibilità del plotone d’esecuzione, essendo prigioniero a Zintan di una banda che non ha rapporti nè con Tripoli, nè con Tobruk. Il condannato, pur descritto come un sanguinario autore di dure repressioni contro la popolazione civile, si difende dicendo: «Se mi uccidete dopo un processo del genere dovrete parlare di omicidio». Il tribunale internazionale de L’Aja aveva chiesto di poterlo giudicare per crimini di guerra, ma è stato spernacchiato all’unanimità dalle pur litigiose tribù libiche. L’Onu non sa che pesci pigliare. Questo accade quando ci si incaponisce a esportare la democrazia con i Tornado e sull’onda dell’entusiasmo degli intellettuali. I quali notoriamente hanno più a che fare con le parole che con i fatti.

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