Complesso di Vienna

Siamo passati dal congresso di Vienna al complesso di Vienna. Vale a dire dall’embrione di un concetto d’Europa alla tachicardia pubblica per il pericolo scampato che un altro pezzetto di Europa venisse barbaramente picconato. Quello che nei giorni scorsi è accaduto in Austria è illuminante e ci conferma in una convinzione: se l’Europa è solo un insieme di numeri che vorticano attorno a una moneta e un insieme di popoli disinteressati (o addirittura spaventati) che in comune hanno solo regole e trattati, il futuro è molto grigio.

È vero che ha vinto l’ecologista Van der Bellen al fotofinish (trentunomila voti) sull’ultranazionalista Hofer, ma è soprattutto vero che sul campo di battaglia sono caduti come mosche i partiti centristi, moderati, in una parola «europeisti». L’Austria del muro, l’Austria della diffidenza, l’Austria in cui l’86% degli operai ha votato Hofer, è un luogo da studiare. Non basta un sospiro di sollievo, è necessario capire. Mai come in questo momento l’Europa delle città s’è differenziata dall’Europa delle campagne, l’Europa dei ricchi dall’Europa dei poveri, l’Europa dei giovani senza frontiere dall’Europa degli anziani in cerca di sicurezza (percepita). In Austria come in Polonia, come in Ungheria, come in Danimarca, come in Grecia (Tsipras è populista come Orban, solo che sta a sinistra), come in Francia con l’esplosione della Le Pen. Come nella stessa Germania, dove la Merkel è costretta a scendere a patti con i nazionalisti. E come in Gran Bretagna, del cui scetticismo tutto si sa. Se Bruxelles si limita a sospirare di sollievo, prima o poi finirà per sospirare e basta.

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