Che bello perdere

In questo inizio di giugno del tutto inusuale sono tornati due classici della tradizione italiana: le mezze stagioni (mattino si cuoce, sera si gela) e lo sconfittismo, malattia infantile della politica che porta chi lo contrae ad azioni meravigliosamente funzionali a perdere quando si sta vincendo.

Lo sconfittismo è malinconico e contagioso, fa sì che l’ammalato entri in un tunnel negativo e cominci a contestare sistematicamente le scelte del suo partito o della sua coalizione, pretenda distinguo bizantini su tutto, fino all’inevitabile litigio-scissione-sconfitta (esempi Fassina e Civati, chi li ha più visti?). È ciò che sta accadendo al Pd, la sindrome di D’Alema e di Prodi ha cominciato ad avviluppare Renzi e soprattutto chi gli sta vicino. L’elettore se n’è accorto e al primo turno delle amministrative ha sancito una realtà: lo sfondamento a sinistra (quella sinistra che adora perdere glorificandosi, salvo poi piangere per vent’anni di Berlusconi) non è riuscito.

Lo sconfittismo comincia anche ad allignare nel centrodestra e le vicende romane ne sono un esempio classico: tutti divisi, tutti a casa. E non essere divisi è impossibile perché Berlusconi in cuor suo vorrebbe votare sì al referendum (del resto quella legge l’ha scritta anche lui), ma il suo cerchio magico e Salvini sono in trincea su un no totalmente antirenziano.

Eppure, nonostante lo sconfittismo, nelle sette grandi città vanno al ballottaggio 6 candidati Pd, 5 di centrodestra, 2 del Movimento Cinquestelle e Masaniello De Magistris. Però sembra che abbia già vinto tutto Grillo. È la forza del percepito, che non vale ma conta.

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