Caffè con L’Eco

Avevamo un piccolo rito, il caffè delle cinque. Si usciva dalla redazione del Giornale, si svoltava a sinistra e in tre minuti eravamo in via Dante, centro di Milano, già pedonalizzata e con i déhors dei bar in fila sulla strada.

Il più bello, in quei ruggenti primi anni Duemila, era lo Sforzesco gestito da due fratelli bergamaschi gentili e curiosi di notizie. Il gruppo dei colleghi era sempre lo stesso, capitanato da un guru del pallone, di quelli che ancora oggi fanno tendenza nei talk show televisivi. Quel giorno di primavera non era come gli altri, la sera il Milan avrebbe giocato una partita decisiva di Champions league e l’aria era elettrica.

Alla vista dell’esperto di calcio all’ingresso del bar, i camerieri e un paio di clienti gli si fecero attorno come se avessero visto il Mahatma, colui che dispensa dogmi vitali. «Dottore, gioca Shevchenko? E Nesta, ce la fa?». Domande epocali che creavano trepidazione nella folla. Per sentire meglio le decisive risposte e nell’atto di guadagnare la pole position un ragazzo finì contro un tavolino dov’era seduto un signore, e fece traballare un boccale pieno. Mi accorsi del possibile disastro, fermai l’ondeggiamento del bicchiere e lo rimisi a posto.

Poi guardai l’uomo con timida vergogna: la barba, gli occhiali con la montatura a forma di televisore, era Umberto Eco. «Scusi maestro, mi dispiace», sussurrai. «Si figuri - rispose con noncuranza -, anzi grazie che mi ha salvato la birra. Vengo qui spesso, due sorsi e un toscano mentre mia moglie non vede. È piacevole guardare la commedia umana». L’apocalittico che nessuno aveva riconosciuto e gli integrati di massa lì a pochi metri, intenti a fare pollaio per una partita di calcio ancora da giocare. Addio professore. Una birra, un toscano. E nessuno che la disturba.

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