Boateng sentì le voci

Due anni e mezzo dopo il fatto non sussiste. Bisogna riavvolgere il film fino al tre gennaio 2013 quando, a Busto Arsizio, il calciatore del Milan Kevin Prince Boateng preso di mira dagli ultrà della Pro Patria decise di chiudere la partita.

La sua partita. Calciò il pallone in segno di sfida verso la curva, si tolse la maglietta e si diresse negli spogliatoi per protestare platealmente contro i reiterati «buuu» conditi con insulti razzisti che (secondo lui) gli erano arrivati a pioggia in quel gelido pomeriggio. È tutto in un video che ha fatto il giro d’Europa, che ha scatenato l’ordalia televisiva (Ha fatto bene? Ha fatto male? Meglio l’indignazione o l’ironia?) e ha costretto la Federcalcio ad applicare con severità le norme antirazzismo introducendo la possibilità di sospendere l’incontro. Per quell’episodio sei ultrà della Pro Patria furono condannati in primo grado a pene da 40 giorni a due mesi di reclusione. Per inciso, a Busto Arsizio la squadra del Milan aveva seguito Boateng negli spogliatoi per solidarietà. Tutti sordi.

Così almeno a leggere la sentenza d’Appello che ha completamente ribaltato il primo verdetto, mandando assolti «perché il fatto non sussiste» i sei tifosi. «Quei cori non avevano alcuna connotazione razzista e non erano ingiuriosi», ha spiegato uno degli avvocati difensori.

La Giustizia non manca mai di riservare sorprese. Questa è grande perché se gli ultrà hanno avuto una legittima riabilitazione resta da stabilire cos’abbiano sentito quel pomeriggio Boateng e i giocatori del Milan. Anche se in questa faccenda non ci sono colpevoli, non è detto che siano tutti innocenti.

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