Alpini andata
e ritorno

Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio. In realtà i passaggi furono due. Il primo reale e notissimo (1915, oggi cent’anni), il secondo sconosciuto e simbolico (2011 e la via fu un’altra, l’autostrada del Brennero) con il Piave e il resto d’Italia del tutto distratti. C’era lo spread da tenere d’occhio, non si può sempre pensare a tutto.

Così è sfuggito il più recente movimento della mitica fanteria alpina che ottenne parole d’ammirazione da strateghi come Rommell e Churchill. Dell’andata sono piene le rievocazioni dei media, sul ritorno in pianura vorremmo rinfrescare noi la memoria. Quattro anni fa, quando l’ultimo governo Berlusconi si ritrovò con una maggioranza risicatissima dopo l’uscita di scena di Fini, anche i voti della Volkspartei di Bolzano facevano comodo. Così, sotto la pressione dell’ex leader sudtirolese Durnwalder – poi travolto da uno scandalo a base di mazzette e sprechi, a conferma che l’Italia è una sola –, il ministro della Difesa Ignazio La Russa acconsentì al trasferimento del 4o reggimento alpini paracadutisti. I nostri ranger evidentemente davano fastidio alla minoranza di lingua tedesca che in quel periodo aveva tentato (invano) di far cambiare nome anche a piazza della Vittoria.

Partirono in 400, comprese le famiglie, nel silenzio più totale, direzione Verona dove oggi quell’eccellente reparto è acquartierato. Uno sfratto politico in piena regola, spiegato con motivazioni logistiche, anche se è dura giustificare che un’eccellenza di montagna abbia base in pianura. Così gli alpini sono tornati indietro, resi merce di scambio da una classe politica che si ritiene in diritto di evocare a vanvera il concetto di patria. E che oggi se ne sta sull’attenti alle celebrazioni ufficiali.

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