A Kobane non si passa

Tre ragazze con i kalashnikov appoggiati alla spalla come borsette da shopping sono oggi il simbolo di una battaglia lontana, forse destinata a diventare per il Califfato islamico ciò che Stalingrado fu per i nazisti.

A Kobane non si passa, sembrano testimoniare le soldatesse curde che parte fondamentale hanno avuto nel resistere quattro mesi all’assedio dell’Isis e nel respingere i miliziani vestiti di nero quando sembravano avere in pugno la città.

Nonostante la colpevole distrazione dell’Occidente; nonostante il peloso disinteresse dei mezzi corazzati turchi, appostati con i binocoli a distanza di sicurezza per vedere come andava a finire; nonostante l’iniziale disorganizzazione della difesa peshmerga, Kobane ha resistito ed oggi può diventare a buon diritto il punto di svolta di una guerra di conquista che il Califfato ha dichiarato al mondo intero (o poco ci manca). Milleottocento caduti, fra i quali numerosi «foreign fighters», gente venuta a combattere sugli altipiani siriani dall’Australia, dal Belgio, dall’Olanda, dal Canada, dalla Cecenia.

E di queste vittime, ben milleduecento sono soldati di Al Baghdadi, anche ragazzini mandati a morire sull’onda di un fanatismo cieco che si proponeva di convertire con la violenza (e più spesso sterminare) gli infedeli cristiani. Una cavalcata cominciata l’estate scorsa nel disinteresse generale fra Iraq e Siria, e arenatasi davanti a Kobane. Grazie ai curdi confluiti per resistere o morire e soprattutto agli F16 americani, che saranno anche insopportabilmente yankee ma in questi casi servono.

© RIPRODUZIONE RISERVATA