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Una batteria commestibile: ecco la nuova frontiera del rapporto fra corpo e tecnologia

Articolo. La prima batteria commestibile al mondo è italiana. La ricetta è stata sviluppata da un team dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Milano guidato dall’ingegnere bergamasco Mario Caironi, e prevede un mix di mandorle, capperi, alghe e carbone, scelti per le loro capacità di conduttori e semiconduttori. Le applicazioni sono molteplici, perché non solo è sicura per l’uomo, ma anche amica dell’ambiente

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La pila edibile esiste e funziona. È una notizia talmente particolare che, nonostante il prototipo sia stato presentato lo scorso marzo alla platea scientifica internazionale, è solo a fine anno, quando la rivista Time l’ha inserita fra le 200 invenzioni più importanti del 2023, che ha ricevuto il risalto mediatico che meritava.

Autori dell’innovazione sono gli scienziati del team di ricerca Printed and Molecular Electonics Laboratory dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Milano. Il gruppo, guidato dall’ingegnere bergamasco Mario Caironi, grazie a questo brevetto ha compiuto il primo passo verso un modo nuovo di concepire la tecnologia nel rapporto col nostro corpo e con l’ambiente che ci circonda. Ancor prima che per la sua capacità e utilizzo, infatti, questa batteria commestibile stupisce perché non rappresenta un compromesso. Non si tratta semplicemente di un sistema ingeribile, nemmeno di una concessione della tecnologia alla natura. Si tratta, invece, di un’invenzione che centra il punto: la batteria si mangia e può essere assimilata completamente dall’organismo. Ma, ancora di più, è totalmente biodegradabile.

Il motivo è nella sua stessa composizione: riboflavina (ovvero la vitamina B2), presente nelle mandorle, e quercetina, che si trova nei capperi in grande quantità. L’alga nori fa da separatore, il carbone attivo da conduttore e la cera d’api è l’ottimo isolante usato per il rivestimento.

«Sappiamo che riboflavina e quercetina possono essere consumate dal nostro organismo in grande quantità – conferma l’ingegnere Mario Caironi, che spiega come questo sia stato uno degli aspetti fondamentali dello studio – non si tratta di trovare nuovi materiali commestibili, ma di cercare le caratteristiche di cui abbiamo bisogno in sostanze che sono già note per essere commestibili, che generalmente non danno problemi e che presumibilmente non ne daranno in futuro con la presenza nei nostri dispositivi. I metalli li evitiamo, proprio perché pur potendo ingerire micro quantità di zinco e rame non possiamo superare determinate soglie».

«Ci servono isolanti, conduttori e semi-conduttori e li andiamo a cercare ogni giorno facendo la lista della spesa del supermercato» scherza Caironi, dando la misura di quanto questa batteria sia solo il primo passo di un progetto ben più ampio. Ciò a cui il team di scienziati sta pensando, infatti, è un insieme di sistemi tecnologici in grado di interagire fra loro per essere impiegati in diversi campi. Se nella batteria ci sono mandorle, capperi e alghe, in futuro altri alimenti potrebbero essere miscelati fra loro per creare sensori e circuiti, come conferma l’ingegnere dell’Iit: «Il nostro obiettivo in questo momento è quello di poter alimentare un circuito, ma ci immaginiamo futuri sistemi commestibili, che possano leggere il nostro corpo dall’interno e fornire indicazioni all’esterno. Stiamo studiando attualmente sensori gassosi e circuiti che sfruttano il chitosano».

Una batteria commestibile e ricaricabile

La pila edibile non ha un nome al momento, ma una serie di caratteristiche tecniche che ne definiscono le possibilità di utilizzo. Raggiunge una tensione di 0,65 volt, ben più bassa della classica pila stilo che raggiunge un volt e mezzo. Il motivo è semplice, come spiega Caironi: «Dobbiamo evitare di generare elettrolisi». La batteria ha la proprietà di mantenere la tensione fissa e la sua durata è variabile a seconda della quantità di energia richiesta per compiere una determinata operazione.

Inoltre è ricaricabile, grazie a un sistema esterno che garantisce lo svolgimento di operazioni più lunghe.

Biomedicina, ma non solo

Il primo ambito d’utilizzo è, chiaramente, quello biomedico. Non solo sarà possibile effettuare esami, ma sarà molto semplice tenere monitorate situazioni di malattia cronica, individuando per tempo eventuali stadi peggiorativi. In un futuro non troppo lontano, pari a 5 o 10 anni, probabilmente sul nostro comodino accanto allo smart watch ci sarà un flaconcino di batterie e sensori commestibili, da ingerire permettendo alle applicazioni di fornirci dati riguardanti un ampio spettro di valori del nostro corpo.

«Un sensore commestibile può anche essere messo a contatto col cibo senza rischi, permettendo di monitorarne la filiera – spiega Caironi – ma penso anche all’utilizzo in agricoltura, dove sarà possibile prendere informazioni da orti e terreni con sensori su larga scala che non inquinano e non arrecano danni ad eventuali animali nel momento in cui vengono ingeriti».

Attualmente, il team di ricerca sta già alimentando dei sensori commerciali con la propria batteria, riducendo notevolmente l’impatto ambientale della tecnologia. Quello dell’inquinamento delle batterie, infatti, è un altro dei temi che sarà determinante per il futuro tecnologico e questa invenzione rappresenta, in questo ambito, una novità importantissima. «Attualmente non siamo in grado di alimentare sistemi molto più grandi come possono essere quelli dei veicoli elettrici» chiarisce Caironi, ma questo non significa che non si possa ridurre l’impatto ambientale di tutta quella tecnologia di consumo che fa già parte delle nostre vite.

Il coraggio di ingerirla

Lo abbiamo già scritto parlando dei chip sotto pelle. Molto spesso è la malattia a definire la soglia di accettabilità di queste tecnologie. La necessità che scaturisce da uno stato di salute compromesso o in pericolo è ciò che ci fa dire: «Va bene, lo ingerisco». Ma saremmo disposti a fare lo stesso da sani?

«La domanda è lecita, ed è giusto fare questo pensiero – conferma Caironi – Più volte ci siamo interrogati su come comunicare in maniera corretta questa invenzione, proprio rispetto alle sensibilità di ciascuno. Per esempio, non abbiamo mai pensato a una batteria che fosse totalmente vegana e quindi non contemplasse la presenza della cera d’api. Possiamo sfruttare le capacità isolanti di alcune sostanze vegetali e correggere questo aspetto. Per il resto, teniamo a far comprendere che il vantaggio di questa tecnologia non è solo nella possibilità di cura, ma nel monitoraggio che evita l’ospedalizzazione, per esempio, o nella possibilità di creare sistemi realmente sostenibili per l’ambiente».

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