Occhi sgranati. «Dove, scusa?». Questa è stata nel novanta per cento dei casi la reazione di parenti, colleghi e amici quando ho annunciato che sarei andata in Turkmenistan. Le poche eccezioni, oltre ai miei genitori che da viaggiatori impavidi non hanno battuto ciglio e hanno invece voluto sapere tutto l’itinerario (poi mi chiedono da chi ho preso…) conoscevano il Turkmenistan solo per la sua fama di “dittatura assurda” e con uno “spirito trash” senza eguali. Che è all’incirca quello che sapevo anche io, prima di partire. In aggiunta a ciò, ero consapevole che sarei stata piuttosto isolata a livello di comunicazioni, perché avrei potuto utilizzare solo Gmail per scrivere a casa: proibiti tutti i social, niente WhatsApp.
Il Turkmenistan è insieme alla Corea del Nord sul podio degli stati più chiusi al mondo. Entrarci da turista è fattibile solo con un viaggio organizzato e una guida locale, che però si è rivelata molto meno rigorosa di quanto immaginassi. Per avere un visto turistico, valido dieci giorni, sono necessari una lettera d’invito, 150 dollari americani, un test Covid approssimativo non appena si atterra sul suolo turkmeno e un paio d’ore di pazienza in aeroporto. Aeroporto che, una volta lasciato alle spalle, mi rendo conto essere una struttura folle, dalla forma di un gigantesco volatile. Mi accorgo ben presto che questa è solo un’anteprima delle incredibili strutture che delineano l’aspetto della capitale Ashgabat: durante la notte, tra le eccessive luci colorate, mi sembra di essere in una sorta di distopica Las Vegas.
Anche la mattina dopo, con la luce del giorno e il sole già caldo, la sensazione di straniamento si riconferma. Con un bus privato e una guida, il nostro gruppo viene scarrozzato a visitare monumenti mastodontici e strutture che hanno portato il Turkmenistan nel «Guinness World Record», come la ruota panoramica indoor più grande del mondo. Concetto piuttosto insensato, perché il panorama è rovinato dai vetri sporchi che la chiudono. Questo comunque non si rivela un problema perché pare che non ci salga mai nessuno oltre a qualche sporadico gruppo di turisti come noi.
Ashgabat ha il primato di città con più edifici di marmo del mondo, è bianchissima da far male agli occhi, senza un’imperfezione. Attorno ai monumenti principali alcuni addetti spazzano i marciapiedi dalla polvere, potano le siepi manualmente. Per il resto la città sembra semivuota, ma la nostra guida dice che sono tutti al lavoro, e aggiunge che i turkmeni amano lavorare. Sicuramente ci sono molte più auto che pedoni: tutte bianche e pulitissime, come imposto dalla legge.
Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, alla guida del Turkmenistan è rimasto Saparmyrat Nyyazow, che era già Primo Segretario del Partito Comunista Turkmeno dal 1985 e capo del Soviet Supremo del Turkmenistan dal 1990. Nel 1991 diventa Presidente del Partito Democratico del Turkmenistan, e dal 1999 decide di tenersi il ruolo a vita. Nel corso degli anni cresce il culto della sua personalità: aumentano le statue d’oro e i palazzi in marmo , mentre gli oppositori politici vengono eliminati. Nyyazov assume il nome di Turkmenbashi, che significa «padre di tutti i turkmeni» e scrive il «Ruhnama», libro dalla copertina verde e rosa che fa da guida pratica e spirituale, obbligatoria e imprescindibile per l’istruzione della popolazione. Per non lasciare nulla al caso, il libro è stato anche lanciato nello spazio e (ovviamente) si è meritato una grande statua ad Ashgabat che in passato addirittura si apriva e permetteva di ascoltare una registrazione dei brani. Pare che il meccanismo ora sia rotto, come quello del Nyyazow dorato che seguiva il movimento del sole. Tuttora, seppur fermo, quest’ultimo svetta sulla cima dell’Arco della Neutralità, monumento che attesta la posizione del Turkmenistan in fatto di politica estera.
Nonostante il libro chiuso, il Nyyazow immobile e il disinteresse del Presidente attuale nel riparare i meccanismi dei monumenti eretti dal suo predecessore, le due opere non passano di certo inosservate.
Alla sua morte, nel 2006, il Presidente viene brillantemente sostituito da Gurbanguly Berdimuhamedow, Ministro della Salute nonché dentista personale di Nyyazow, che dopo aver assunto la carica ad interim venne legittimato con il quasi 90% dei voti alle successive elezioni. Un risultato sorprendente? Non per un tiranno turkmeno.
Gurbanguly non solo segue i passi del suo predecessore con una linea dittatoriale a base di megalomania, ma si dà alla musica e sforna tormentoni come quello dedicato ad Awaza, località balneare di lusso sul Mar Caspio proibita ai turisti stranieri, dove però riusciamo ad imbucarci per goderci le Caspian waves tanto declamate nella canzone. Giungiamo ad Awaza su un taxi bianchissimo superando senza difficoltà i posti di blocco.
Una volta scesi, ci rendiamo conto di essere stati catapultati in una sorta di “Ashgabat marittima”. Awaza è fatta di grandi resort moderni e vuoti, strade enormi, pochissima gente in giro, un bar affacciato sul mare dove probabilmente siamo i primi clienti da tempo. Il Mar Caspio però ci dà soddisfazioni: l’acqua è pulita e trasparente, la spiaggia ampia, qualcuno ne approfitta per fare un bagno rinfrescante.
Nel 2022 Gurbanguly passa la palla al figlio Serdar, ma con qualche piccolo accorgimento riesce a mantenere il titolo di Leader Nazionale, avendo quindi diritto di parola su qualsiasi cosa. Ora è Serdar, incorniciato o riprodotto in gigantografie, a guardarci inespressivo dalle pareti di qualsiasi hotel ed edificio pubblico. In un albergo di Balkanabat troviamo alcuni quotidiani delle ultime settimane. Su ogni copia la pagina iniziale riporta una foto del Presidente, che è sempre molto simile a quella dei giorni precedenti, ma mai del tutto uguale.
Il primo impatto con il Turkmenistan, in una Ashgabat bianca e oro, è di fatto straniante. Poi, nei giorni seguenti, scopriamo che Ashgabat non è il vero Turkmenistan, che la vita delle persone non si svolge dietro ai muri dei palazzoni di marmo ma nei bazar e nei cortili delle città, tra le casette basse e le vie polverose dei villaggi.
Scopriamo che, a discapito della chiusura del Paese, le persone sono molto accoglienti e curiose nei confronti dei pochi turisti che incontrano. Chi conosce qualche parola di inglese non esita a chiederci da dove veniamo, che lavoro facciamo, se ci piace il Turkmenistan, ma spesso comunichiamo anche con gesti, espressioni, un po’ come viene. Alcuni incontri mi commuovono, come quello con una signora di Krasnovodsk (ora chiamata Turkmenbashi) che ci invita a casa sua: «Sono emozionata perché non avevo mai visto degli stranieri» ci ha detto, e mi ha ricordato quanto sia privilegiata a possedere un passaporto italiano e poter viaggiare liberamente.
Tantissime persone ci chiedono di fare foto insieme a loro: ho la galleria del telefono piena di selfie con gentilissimi sconosciuti, e con tutto il gruppo siamo stati immortalati nei book fotografici di svariati matrimoni turkmeni. Sposi e invitati bellissimi, elegantissimi, soprattutto le donne con i lunghi e colorati abiti tradizionali, i colletti ricamati e i fazzoletti in testa. Noi accanto a loro, sfatti e sudati, con i nostri berretti da turisti a proteggerci dal sole cocente e gli occhi che invece di guardare l’obiettivo osservano le auto degli sposi parcheggiate poco lontano, decorate secondo l’usanza in maniera decisamente poco sobria.
Il Turkmenistan è composto per la maggior parte della sua estensione territoriale da deserto. Passiamo diverse ore del viaggio su jeep e bus tra strade più o meno praticabili in mezzo al nulla per vedere i colori surreali del canyon di Yangykala, le rovine dell’antica città oasi di Merv e di Konye Urgench, antica capitale della Corasmia.
Visitiamo anche il famoso cratere di Darwaza, creatosi nel 1971 dopo che alcuni geologi sovietici piantarono una trivella in un giacimento di gas naturale. Il terreno crollò e dato che la grande quantità di gas sprigionata era pericolosa, decisero di dargli fuoco per esaurirla, ma il cratere brucia ancora ed è una visione suggestiva soprattutto la notte: non per niente viene chiamato «la porta dell’inferno».
Durante i viaggi, spesso ci fermiamo in alcuni villaggi sperduti in mezzo al nulla. In uno di questi, un gruppo nutrito di bambini incuriositi circonda le nostre jeep, e un ragazzo del gruppo ha la brillante idea di chiedere se hanno un pallone. Non c’è ostacolo linguistico, culturale o sociale che tenga davanti a una partita di calcio improvvisata Italia vs. Turkmenistan, che viene orgogliosamente persa da una decina di italiani contro un numero almeno doppio di bambini e ragazzi in ciabatte di gomma. Resto volentieri a bordo campo e dopo qualche minuto vedo un ragazzino che dà ordini precisi a un bambino più piccolo. Lui si allontana di corsa e torna dopo qualche minuto correndo ancora più veloce, con delle scarpe nuove di zecca in mano. Il ragazzino più grande, che penso sia il fratello, è pronto per vincere la partita contro gli italiani con le scarpe della festa.
L’ultimo pomeriggio di viaggio torniamo ad Ashgabat e ci addentriamo nei mercati e nelle vie secondarie. In borsa ho ancora un pezzo del pane che mi ha regalato una signora a Dashoguz, la mattina stessa, appena tolto dal forno di argilla del suo cortile.
Dopo aver girato il Turkmenistan in un lungo e in largo, dopo che ci sono stati donati sorrisi accoglienti e inviti ovunque, anche Ashgabat mi sembra più umana. Ero partita con tante domande su questo Paese, ma le ho lasciate cadere per strada. Nello zaino al loro posto ci sono i sorrisi, gli incontri, le chiacchiere in un’accozzaglia di lingue e gesti. I souvenir più preziosi.
(Tutte le foto sono di Lisa Egman)