La differenza tra una storia nota e una storia interessante sta nel come viene raccontata. E se c’è una cosa, su tutte, che ha reso Stefano Nazzi una voce nota è proprio questo: il “come”. Ricostruzione accurata, prosa asciutta, intonazione neutra e nessuna forzatura sembrano essere la ricetta perfetta per tenere alta l’attenzione di lettori e ascoltatori appassionati di cronaca.
Il miglior modo per presentare il giornalista ai pochi che non associano il nome alla voce è l’incipit del famoso podcast italiano, che mai mi sognerei di riportare parzialmente: «Io mi chiamo Stefano Nazzi, faccio il giornalista da tanti anni e nel corso della mia carriera mi sono occupato di tante storie come questa. Quelle che nel tempo vi sono diventate familiari e altre che potreste non aver mai sentito nominare. Storie di cronaca, di cronaca nera, di cronaca giudiziaria». Chi ha ascoltato almeno una puntata di «Indagini» - ai primi posti delle classifiche nazionali da anni - ha letto queste righe con un suono preciso.
Stefano Nazzi ha lavorato per diverse testate giornalistiche occupandosi, appunto, anche di numerosi casi di cronaca italiana, le stesse storie che oggi sono protagoniste dei suoi racconti. Con Mondadori ha scritto due libri: «Il volto del male. Storie di assassini efferati», uscito nel 2023; e «Canti di guerra» pubblicato lo scorso maggio, che presenterà a Bergamo, insieme al giornalista de «Il Post» Isaia Invernizzi, il 2 luglio alle 21 al NXT Station in Piazzale Alpini.
L’ultimo romanzo di Nazzi racconta le vicende legate ai più celebri criminali milanesi: Francis Turatello, noto come “faccia d’angelo”, insaziabile di potere, Renato Vallanzasca, “il bel René”, rapinatore anarchico le cui azioni hanno colpito anche la provincia bergamasca, e Angelo Epaminonda, detto “il tebano”, gangster feroce e spietato. Quella di «Canti di guerra» è una Milano degli anni Settanta irriconoscibile per chi non l’ha vissuta. Violenta, corrotta e oscura, con bossoli di pistola per le strade, una media di centocinquanta omicidi all’anno, piena di delinquenti, imprenditori e personaggi dello spettacolo, con le bische nascoste dentro a palazzi insospettabili, rapine all’ordine del giorno e delitti di ogni genere. Ancora una volta Nazzi riesce nell’intento di ricostruire i fatti in modo chiaro e preciso, evitando eccessi in tecnicismi, accostando l’analisi del contesto sociale, culturale e psicologico in cui i casi si inseriscono. In attesa dell’incontro a Bergamo, abbiamo parlato del suo lavoro.
CD: Dalle prime puntate, «Indagini» è ai primi posti delle classifiche dei podcast in Italia. Qual è la chiave del suo successo? I podcast di genere true crime non sono pochi, in cosa si differenzia dagli altri?
SN: «Indagini», come anche altri podcast dello stesso genere, cerca di attenersi ai fatti, cioè al racconto di ciò che avvenne. Senza entrare in logiche “altre”. Non cercando il sensazionalismo, evitando una narrazione cruenta, pulp. Ciò che conta è non ergersi a giudice, avvocato, a commentatore, ma semplicemente esporre gli avvenimenti, poi ognuno si fa la sua idea. Penso che questo tipo di linguaggio, nettamente diverso da quello a cui siamo abituati nei prodotti televisivi, possa piacere. Ovviamente poi ci sono altri fattori come il modo di raccontare, la musica, e la voce che ha evidentemente una sua importanza in un podcast.
CD: Che siano libri o episodi, i tuoi temi sono crimini e omicidi. La cronaca nera è affascinante per l’essere umano, altrimenti non avrebbe così tanto successo. D’altro canto, è però necessario che chi se ne occupa sappia schivare la morbosità. Hai una strategia?
SN: Questa è una cosa che ho imparato da Carlo Lucarelli, lui fa un esercizio che gli ho copiato. Si tratta di chiedersi, un attimo prima di fornire un’informazione, se questa sia utile ai fini della comprensione della storia, oppure sia solo per creare effetto. L’informazione influisce sul racconto, o serve solo a creare attenzione? Se la risposta è «no, non serve», non la riporterò, perché ciò da cui voglio stare più lontano è forzare le emozioni. Tant’è che nei punti in cui i dettagli del racconto potrebbero risultare troppo pesanti emotivamente, come un passaggio di un’autopsia riportato per comprendere l’accaduto, metto un disclaimer e suggerisco di andare avanti di alcuni secondi se non si vuole sentire.
CD: A questo proposito, nell’ultimo libro «Canti di guerra», racconti di una Milano molto diversa da quella di oggi. Quella della «mala» degli anni ‘70. Racconti di criminali feroci con pochi scrupoli, ma il tuo modo di ritrarli non trascura l’umanità dei protagonisti, tutt’altro.
SN: È un’altra convinzione da cui parto, che va al di là dei giudizi. È chiaro che fossero criminali e che abbiano fatto cose terrificanti, ma appartengono all’umanità. Non sono mostri come noi spesso diciamo con un senso quasi di consolazione, come se non facessero parte della collettività. No. Queste persone feroci, che hanno fatto cose terribili, sono esseri umani complessi con affetti, amicizie, le loro vite. Dopodiché hanno compiuto scientemente azioni atroci ed è questo che li ha resi criminali.
CD: Si denota nel tuo lavoro una certa, particolare, attenzione al linguaggio. Quanto pensi che sia importante e quali sono secondo te le responsabilità di un giornalista riguardo al linguaggio utilizzato?
SN: Nel racconto noi, e dico tutti noi come categoria, siamo spesso portati a usare frasi fatte e luoghi comuni. In primis cerco di smontare proprio questo, evitando di utilizzare espressioni a ripetizione, a effetto, di non usare locuzioni come: “il raptus omicida”, “la villetta degli orrori”, “il terribile omicidio”, come se potesse esserci un omicidio non terribile! Cerco di restare in un linguaggio, se vuoi, più scarno, forse meno d’effetto, in cui però si usino parole vere, quelle del quotidiano.
CD: Una storia è una storia. Può però cambiare, talvolta completamente, a seconda della prospettiva da cui la si guarda e, di conseguenza, anche il modo di raccontarla cambia. Che sia per un podcast o per un romanzo, come scegli una storia e come poi costruisci il racconto?
SN: Sulla base di due fattori molto semplici: se c’è qualcosa da raccontare e se c’è materiale per farlo. Credo che anche a distanza di anni si possano rimettere in ordine le informazioni, perché su alcune situazioni si sono sommate così tante notizie che non c’entrano, che forse è possibile rifare chiarezza. Mi concentro su particolari che a me sembrano importanti, li trovo negli atti e nei racconti delle persone. Per farti un esempio, nell’ultimo libro racconto di quando Angelo Epaminonda fece recapitare un cucciolo di leone alla figlia di Bettino Craxi: per quanto assurda, che sia vero o no, lui in tribunale la disse così. È una storia che è stata raccontata dal protagonista durante il processo, quindi riportata agli atti.
CD: Dunque parti dagli atti e ricostruisci man mano che emergono elementi?
SN: Da atti, testimonianze, racconti di loro stessi, interviste. Riguardo a «Canti di guerra», i personaggi di cui parlo hanno tutti comportamenti narcisisti portati all’eccesso, quindi chiaramente loro stessi avevano la tendenza a romanzare le loro gesta e a non sottrarsi alla visibilità. Vallanzasca diede interviste a chiunque. Poi certe cose passate per vere sono in realtà leggenda e altre, considerate assurde, sono reali.
CD: Una cosa in cui secondo te il giornalismo italiano dovrebbe migliorare oggi?
SN: Più che di miglioramento, si tratta delle scelte che si fanno ai fini del racconto. Spesso si sceglie di partire da una tesi per mezzo della quale si arriva poi a raccontare gli avvenimenti. Invece, bisognerebbe solo raccontare i fatti, cercando di non condizionarli a una propria tesi.
CD: Che consiglio daresti a chi vorrebbe creare un podcast?
SN: Cercare qualcosa che non c’è, che è difficile, perché ormai si è già visto praticamente tutto. È necessario prima immaginarsi il racconto nella propria testa e poi porsi la domanda: «C’è un racconto da fare?». Se la risposta è «sì», allora si può costruire.
CD: Lo dici tu: fai il giornalista da tanti anni, da molto prima che esistessero i podcast. Come stai vivendo questa popolarità improvvisa? Hai ricevuto critiche per il tuo lavoro?
SN: Guarda, è una cosa strana che ovviamente non mi aspettavo, né ho cercato in nessun modo, che però ovviamente mi fa piacere. A volte mi stupisco ancora, poi mi dico che non è che io faccia balletti su TikTok. Faccio un prodotto giornalistico, che piace perché fornisce spunti e approfondimenti, quindi va bene così. È capitato che smontassero una puntata di «Indagini» per esprimere disaccordo sul giudizio. Riguardo a casi come la strage di Erba ci sono opinioni contrastanti, ma non so quanto senso abbia smontare il mio podcast per esprimere una tesi. Diciamo che più della critica, c’è una dialettica su alcune storie.