“Scemi di guerra” ovvero i soldati che tornavano dal fronte della prima grande guerra con il corpo integro e la psiche distrutta dalla vita in trincea

I turni in trincea potevano durare anche per settimane. Bisognava stare fermi in uno spazio ridotto che era cucina, gabinetto, ospedale e cimitero. Sotto un diluvio casuale di proiettili di acciaio e con il rombo feroce delle esplosioni nelle orecchie. Ogni guerra porta devastazioni sempre diverse che sono esterne, ma anche interne, soprattutto se lo Stato non riconosce il sacrificio.

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Tra i tanti “ricordi” che tutte le guerre in ogni epoca e in tutto il mondo hanno lasciato ai sopravvissuti, sia vincitori che vinti, sono sempre rimasti i feriti, sia amputati che totalmente inabili al lavoro. Quando non soccorreva l’aiuto del Sovrano vincitore o la carità dei familiari e dei vicini pietosi, la sopravvivenza dei “fortunati”, era una lotta impari contro la sorte e dal risultato scontato.

Nel luglio 1792 a Parigi, la Rivoluzione Francese decise che lo Stato avrebbe pensato ai Cittadini che avevano sacrificato quanto avevano di più caro per difendere i principi fondamentali della Nazione: libertè, egalitè ma soprattutto fraternitè. Si pensò quindi ai feriti con le menomazioni più evidenti e disastrose, alle grandi amputazioni di soldati con incredibili capacità di sopravvivenza.

Con il succedersi delle guerre e l’introduzione di nuove armi sempre più “efficaci”, oltre che alle evidenti ferite fisiche, durante la Grande Guerra si dovette incominciare a pensare alle devastanti, ma meno evidenti, ferite mentali e psichiche.

Dal 1915 fu coniata in Italia l’espressione “Scemo di Guerra” che divenne nel parlare comune anche un terribile modo di offendere. Succedeva sempre più di frequente che militari reduci dai turni in trincea (che potevano durare anche per settimane), apparentemente senza lesioni fisiche, manifestassero sintomi di delirio di persecuzione, di amnesia, di incapacità di esprimersi, di tremori irrefrenabili, di delirio sensoriale, di confusione allucinatoria. Tali comportamenti per la medicina e le leggi militari erano classificati “codardia di fronte al nemico” e portavano immediatamente ai Tribunali di Guerra, con sentenza già emessa: la fucilazione.

Non è possibile per noi uomini del 2024 anche solo immaginare come si potesse restare fermi per giorni in una trincea che ti faceva da casa, da cucina, da gabinetto, sotto un diluvio casuale di proiettili di acciaio, con il rombo feroce delle esplosioni nelle orecchie, con il fumo e la polvere che ti accecavano, con l’odore degli esplosivi e le puzze dei camerati (vivi e morti) che ti ammorbavano. Le granate infatti sconvolgevano anche i cimiteri nelle retrovie, facendo “rinascere” i commilitoni in differente grado di putrefazione. A titolo di folle esempio cito alcuni dati della Battaglia della Somme in Francia: dal 24 giugno 1916 gli Alleati spararono contro gli Imperiali per 7 giorni continuativi, con circa 3000 cannoni di vario calibro, l’enormità di un milione e settecentomila proiettili.

Alla sera del primo giorno di assalto gli inglesi contarono 57.470 tra morti e feriti. Possiamo capire cosa significa il festoso e liberatorio trillo dei fischietti degli ufficiali che ordina di uscire dalle trincee con la baionetta inastata contro i “crucchi”?

Coloro che al rientro da fronte manifestavano strani comportamenti e che venivano indubitabilmente assolti dall’accusa di “simulazione”, venivano spediti nei manicomi: in Italia a fine 1918 ospitarono circa 40.000 pazienti per i quali la cura definitiva era l’elettroshock da 70 volt.

Oggi lo shell shock ribattezzato “shock da combattimento” o “nevrosi di guerra” si è modificato nel tempo divenendo “collasso psichiatrico”: durante la seconda guerra mondiale la tecnica militare poco usava le trincee affollate di soldati, privilegiando i grandi bombardamenti aerei che colpivano in prevalenza i civili anche lontani dal fronte bellico.
Si è arrivati quindi e purtroppo alla definizione di Grande Invalido (Prima Categoria): “cittadini che hanno perduto ogni possibilità di provvedere a sé ed agli altri”.

La Repubblica Italiana ha promulgato leggi e regolamenti per dotare di pensione e di assegni i cittadini colpiti da Superinvalidità ma il numero sta comprensibilmente ed ineluttabilmente diminuendo negli anni.

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