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Savino Pezzotta e la politica come relazione a salvaguardia dell’umano

Intervista. Il già segretario generale della Cisl sarà alla Fiera dei librai il 23 aprile. Al centro della sua idea politica e sociale, le Beatitudini del Vangelo

Lettura 4 min.
II neo segretario generale della Cisl in Provincia incontra le istituzioni nel 2000

Se mi si domandasse di Savino Pezzotta, dalla mia mente affiorerebbe un ricordo. Quello di un sindacalista furioso che, con voce tonante e occhi grifagni, infiamma i cuori di quarantamila scioperanti che, sotto una pioggia torrenziale, si sono radunati per ascoltarlo. Un Pezzotta più unico che raro, quello di quel giorno lì, così diverso da quella personalità serafica, con cui, sin dall’inizio della sua carriera, aveva abituato i propri interlocutori. Sono passati più di vent’anni da quell’episodio che, seduto con mio padre sul divano di casa, avevo visto al telegiornale, eppure l’ex segretario generale della Cisl, che, alle 16.30 di mercoledì 23 aprile, alla Fiera dei librai presenterà il suo libro («Lavorare a un mondo migliore, una spanna alla volta», Achille Grandi Editore, 2024), pare non aver perso quella caparbietà che, da sempre, contraddistingue la sua lotta in nome della giustizia sociale.

FR: Savino Pezzotta, nell’epoca della modernità liquida, in cui i rapporti umani sono sempre più fragili e vulnerabili e concetti come politica, comunità e solidarietà paiono passati di moda, affogati nell’ebbrezza dell’indifferenza e dell’individualismo, che valore assume oggi la partecipazione civile?

SP: Io credo che, attualmente, ci troviamo di fronte a una crisi del modello democratico; e questo perché, a un certo punto della storia recente, la politica è stata subordinata alla dimensione economica che, inevitabilmente, ha accentuato la spinta individualistica. In una situazione come questa, la partecipazione civile assume dunque ancor più valore. L’egoismo, mi preme affermarlo, è una malattia e non la naturale condizione umana che, al contrario, si basa sul vivere assieme e quindi sulla relazione, a cui dobbiamo costantemente tendere. L’altro è colui che ci fa esistere, non colui che ci mortifica.

FR: Stiamo procedendo, di gran passo, verso la quinta rivoluzione industriale; anzi: ci siamo già dentro. Che idea si è fatto dell’intelligenza artificiale? Inaugurerà un’inedita “età dell’oro”, in cui si lavorerà tutti e si lavorerà meno, causerà preoccupanti sacche di disoccupazione o andrà a lacerare diritti sindacali e tessuto sociale, aprendo le porte a uno sfruttamento aggressivo e coatto?

SP: Non sono un tecno-pessimista, se così si può dire: guardo all’intelligenza artificiale con attenzione e curiosità, non con repulsione. Del resto, è un prodotto della mente umana. Certo, è un fenomeno che sta mutando la visione del lavoro e bisogna battersi affinché, in futuro, il lavoro sia ancora intreccio sano fra diritti e doveri. Come ogni scoperta dell’uomo, l’intelligenza artificiale può portare al male o può portare al bene: non va demonizzata ma regolarizzata e, soprattutto, non può trasformarsi nella rivoluzione dei ricchi contro i poveri: i primi non hanno il diritto di appropriarsi indiscriminatamente dei vantaggi di questa grande novità a discapito dei secondi (che meritano un’accurata alfabetizzazione digitale).

FR: Il sindacato è preparato a fronteggiare questo profondo cambiamento?

SP: Non lo so, perché è da anni che osservo il sindacato dal di fuori, ma deve esserlo. Simone Weil, fine intellettuale, per comprendere la condizione operaia nella società industriale, andò in fabbrica. È necessario che i lavoratori che vivono la pressione digitale diventino protagonisti all’interno del sindacato, in modo che possano portare la loro esperienza dentro le organizzazioni del lavoro.

FR: Lei, una volta, ha detto che il sindacato è passione e scelta etica. Ma il sindacato, attualmente, è ancora un ente al servizio del lavoratore o è diventato una corporazione che difende, in modo autoreferenziale, il proprio potere?

SP: Io continuo a credere che continui a essere uno strumento fondamentale per i lavoratori. Il giorno che non sarà più così, sparirà. Vero è che dentro al sindacato si è instaurata la burocrazia, ma essa non inficia il valore del sindacalismo. La crisi della democrazia è, prima di tutto, crisi dei corpi intermedi: pensare di abolire il sindacato sarebbe una follia.

FR: L’Italia è l’unico paese dell’Unione europea in cui i lavoratori guadagnano meno di trent’anni fa. Perché?

SP: Perché in questi ultimi anni la questione salariale è stata pesantemente marginalizzata. L’attività sindacale deve riportare al centro della propria battaglia la questione salariale: non è possibile che oggi, dopo anni di scontri e conquiste, la gente faccia fatica a vivere.

FR: Come vede il futuro dei giovani?

SP: Domanda difficile a cui, di solito, viene data una risposta facile. Non ho risposte facili. I giovani devono mettersi in testa che devono studiare e acquisire competenze, così da dominare il sapere moderno. In caso contrario, rischieranno di non farcela. Se si impegneranno, invece, riusciranno a gestire i processi di cambiamento che li attendono. Don Milani diceva che i padroni erano forti perché potevano vantare un vocabolario più ricco di quello dei loro operai. A questo bisogna puntare: possedere più parole di chi comanda.

FR: Sudan, Congo-Kinshasa, Ucraina, Palestina, Myanmar, Yemen… il mondo è dilaniato da guerre; il lavoro può farsi cultura di pace?

SP: Certo! Senza la pace non c’è il lavoro e il lavoro, normalmente, è una dimensione associativa: non si lavora da soli, ma con gli altri. Il conflitto, al contrario, rompe la relazione con chi ci circonda. Ecco perché bisogna opporsi alla guerra ma anche a un riarmo senza chiarezza. Non ci si può riarmare basandoci sull’ipotetico presupposto che qualcuno voglia invaderci. Bisogna perseguire un’altra via: quella della resistenza non violenta. Questa la mia visione da europeista pacifista quale sono.

FR: Quali sono state le figure che hanno ispirato il suo cammino di lavoratore e di sindacalista?

SP: Ce ne sono state tante, fra amici e colleghi, e sono loro grato, perché mi hanno aiutato a stare in campo con determinazione. E poi ci sono state le grandi figure del cattolicesimo, come, per esempio, Romano Guardini, René Girard, Pierre Teilhard de Chardin, Jacques Maritain e i filosofi del Medioevo che, in modo decisivo, hanno dissertato sul rapporto fra fede e ragione. Ad ogni modo, attualmente, per noi cattolici, non credo ci sia personalità più ispiratrice di papa Francesco. Un Papa in grado di toccare il cuore anche di chi credente non è. Ma dirò di più: non penso che il Cristianesimo sia in crisi. Spetta a noi cristiani professare le verità della nostra fede e testimoniarne le gioie nel nostro percorso politico e sociale, che deve avere come punto di riferimento il Discorso della montagna. Le Beatitudini devono essere le stelle che guidano il nostro cammino.

FR: In questo tempo presente, per lei, per che cosa, ancora, vale la pena combattere?

SP: Per la libertà di tutti. Non possiamo celebrare il 25 aprile senza avere in mente la libertà. Non c’è uguaglianza senza libertà e l’uguaglianza porta infine alla fraternità. Il giorno che ci riconosceremo davvero fratelli, cominceremo, seriamente, a prenderci cura della nostra casa comune: la terra. La politica dovrebbe fare proprio questo: salvaguardare l’umano dalla crisi climatica e dalla guerra.

FR: Si sente un uomo felice?

SP: Sono felice perché ho vissuto la vita fino in fondo. E anche adesso che sono vecchio e acciaccato e che il tempo di fronte a me è davvero poco, mi sento di dire che la vita, anche nella fragilità, è meravigliosa. Un dono che non possiamo sprecare.

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