Essere un bambino ad inizio 2000 non era “facile” (da un certo punto di vista, si intende). Bisognava vivere a cavallo tra un mondo quasi totalmente analogico, ovvero quello dei genitori e un mondo digitale che si faceva giorno dopo giorno sempre più insistente, con le sue mode passeggere e il diramarsi di tecnologie tanto futuristiche quanto spesso fallimentari. Un solo fenomeno è però riuscito a focalizzare l’attenzione di tutti noi (uso il “noi” perché nel 2000 il sottoscritto aveva otto anni): uno tsunami proveniente dal Giappone chiamato Pokémon. Centinaia di mostri collezionabili con abilità e poteri unici, disseminati in un mondo in cui i ragazzini potevano usarli per dare vita ad epici scontri basati sulla lealtà e l’amicizia. Le tre principali emanazioni (ma non certo le uniche) dei Pokémon in quel periodo furono la serie animata, i videogiochi - che videro la luce sul Gameboy, la più fortunata tra le console portatili di Nintendo - e il gioco di carte collezionabili.
Proprio su quest’ultimo ci soffermeremo oggi, poiché gli anni passano, ma le passioni restano e si intensificano. Così, quello che ad inizio XXI secolo era solo un tentativo di creare un gioco strategico basato su carte collezionabili (i cosiddetti Trading Card Games, di cui il famoso «Magic: The Gathering» è stato capostipite oltre che uno tra i più giocati tutt’ora) è diventato un fenomeno di massa che coinvolge giocatori da tutto il mondo, con tanto di società internazionali che ne stabiliscono regole e ranking. Per capire meglio questo mondo, abbiamo parlato con Alberto Conti, bergamasco classe ‘96 e terzo miglior giocatore al mondo per quanto riguarda la classifica relativa ai mondiali 2025 al momento della stesura di questo articolo.
Che cos’è il gioco di carte di Pokèmon e come funzionano i tornei
Come nella serie e nel videogioco, anche nel gioco di carte i giocatori hanno a disposizione una squadra di Pokémon che deve essere utilizzata per fronteggiare la squadra avversaria seguendo regole prefissate. Nuove carte vengono rilasciate ogni due o tre mesi cambiando totalmente le strategie da utilizzare e, di conseguenza, anche il tipo di avversari che ci si può trovare di fronte. Fin qui, nulla di diverso da un normale gioco di carte della stessa tipologia. La particolarità di Conti come giocatore è però il fatto che gareggi a livello professionistico, mondo decisamente meno conosciuto rispetto a quello delle semplici partite tra amici.
GT: Come funziona il sistema di tornei legato a Pokémon?
AL: La struttura torneistica di Pokémon si sviluppa a cicli annuali che partono da settembre fino ad agosto dell’anno dopo e questa viene definita “stagione competitiva”. Ogni stagione competitiva si conclude con il mondiale che viene svolto, appunto, ad agosto. Ci sono vari tipi di tornei, da quelli a livello locale che si svolgono in una giornata sino ai tornei chiamati «major event», della durata di più giorni e in cui vengono messi in palio premi in denaro anche piuttosto consistenti (il premio per il primo classificato al mondiale 2023 è stato di 25.000 dollari, ndr). Oltre al premio del torneo in sé, c’è un sistema di ranking europeo e, ogni trimestre, i primi sedici giocatori in questa classifica ricevono una sorta di “travel award”, un premio in denaro di 3500 dollari utilizzabile ad esempio per coprire le spese di viaggio, dato che i tornei principali in cui guadagnare punti sono sparsi per tutto il globo.
L’approccio al gioco
Chiarite le questioni tecniche, chiacchiero un po’ con Alberto della sua recente vittoria al torneo di Danzica, in Polonia, dove ha conquistato l’accesso ufficiale ai mondiali che si terranno a Anaheim , in California, primeggiando su oltre 1300 giocatori di ogni età e nazionalità. Cerco quindi di capire cosa lo abbia condotto a questa passione e se ad oggi questo tipo di attività possa essere praticata come un lavoro a tempo pieno.
GT: Come sei arrivato a competere a questi livelli?
AC: Gioco da quando ero ragazzino, anche se all’epoca seguivo molto di più il gioco di carte di Yu-Gi-Oh, a cui mi sono approcciato anche a livello competitivo quando ho cominciato a frequentare le scuole superiori. L’ho fatto più per curiosità che per senso di sfida e da lì poi ho iniziato a fare qualche viaggio, vincendo anche dei tornei importanti. Nel 2019, a seguito di alcuni eventi della mia vita, avevo deciso di smettere di giocare ma, a fine pandemia, mi son reso conto che mi sarebbe piaciuto ricominciare a coltivare questo mio hobby e, visto che il gioco di Pokémon stava crescendo in popolarità, ho deciso di puntare su quello. Così sono semplicemente uscito di casa, sono andato nel mio negozio di carte di fiducia e ho iniziato a giocare con i ragazzi della zona. Il resto è storia.
GT: E oggi l’attività torneistica è il tuo unico lavoro?
AC: Ho lavorato fino a giugno in un negozio a Bergamo. A luglio mi sono licenziato, ho iniziato ad insegnare a giocare a Pokémon tramite un sito privato, e quello è attualmente il mio lavoro. In più ci sono i soldi che arrivano dagli sponsor e i premi dei tornei, su cui però non bisogna fare affidamento perché non sono guadagni sicuri. Se capita una stagione «storta» e non arrivi nelle prime posizioni diventa difficile far quadrare i conti. Comunque, sto approfittando di questo momento per studiare il tedesco, in modo da raggiungere la mia ragazza in Germania e trovare un lavoro lì.
La crescita personale
Per concludere, ho deciso di concentrarmi su quello che credo sia l’aspetto più bello delle passioni, ovvero la capacità di far evolvere un individuo a livello mentale ed emozionale, chiedendo ad Alberto dettagli sul suo conciliare un lavoro tanto particolare con la vita di tutti i giorni.
AC: Mi fa un po’ sorridere il fatto che la mia passione sia diventata a tempo pieno il mio lavoro, dato che solo le lezioni mi occupano ogni giorno dalle cinque alle sei ore, a cui vanno aggiunte le ore di studio di mazzi e regolamenti oltre che, ovviamente, viaggi e tornei. Una cosa che io ho vissuto molto male negli anni in realtà è stata banalmente condividere i miei compagni di classe il mio hobby delle carte, che veniva sempre visto come una cosa piuttosto infantile. Ricordo che nascondevo la cosa anche su Facebook, il social che usavo al tempo. Non scrivevo niente, pubblicavo ogni tanto delle foto dove ritagliavo l’immagine in modo che non mi si vedesse mentre giocavo a carte e a scuola non ne parlavo assolutamente. Quando la cosa è diventata di dominio pubblico, ricordo che in qualche modo ero stato preso in giro per un certo periodo.
GT: Come hanno preso i tuoi genitori la tua passione, soprattutto per quanto riguarda il viaggiare per i tornei?
AC: All’inizio erano straniti dalla cosa. Mi hanno ovviamente supportato, ma sempre cercando di farmi capire che dovevo prestare la giusta attenzione anche agli studi e a tenere gli occhi aperti anche a livello lavorativo. Per quanto riguarda i viaggi, un giorno ho detto «Mamma, papà, io vado. Prendo un aereo e vado a giocare a carte». Mi hanno guardato un po’ male, però poi mi hanno lasciato andare, non prima però di raccomandarmi più volte di non smettere di studiare. Va detto che anche solo il prendere l’aereo per spostarsi e seguire un evento è molto più normale per una persona della mia età rispetto a quanto non lo fosse per i miei genitori, per cui credo che parte della preoccupazione fosse legata anche a questo.
GT: E a te questi viaggi hanno insegnato qualcosa?
AC: Moltissimo. Innanzitutto mi hanno “costretto” ad imparare ad organizzarmi e gestirmi. Sembrerà banale, ma per un ragazzo di diciott’anni organizzare un viaggio trovando hotel, mezzi di trasporto e guardando anche alla gestione delle spese non è facile. Dai primi viaggi ho imparato moltissimo su quello che significa essere indipendente. Oltretutto, il dover viaggiare all’estero dovendo avere a che fare con organizzatori e giocatori ti costringe a imparare e perfezionare il tuo inglese. È proprio grazie all’inglese che sono riuscito a legare con molti amici e a conoscere ad un torneo negli Stati Uniti la mia ragazza, che è di nazionalità tedesca. Infine, lo stare a contatto con così tante persone provenienti da posti molto diversi del mondo ti costringe a capire il loro punto di vista. Tra i miei migliori amici ci sono ragazzi inglesi, finlandesi e statunitensi che ragionano in maniera totalmente differente tra di loro, eppure il confrontarci ci porta a comprenderci e questa è di gran lunga la cosa migliore che mi sia mai successa.
Chiudiamo la chiacchierata parlando di passioni comuni e tornei futuri, ma una frase che mi ha detto mi è rimasta particolarmente impressa: «Io non giudico l’hobby di nessuno». In questa breve intervista abbiamo visto vari aspetti della storia di Alberto, compresa la sensazione di essere schernito per via della propria passione. Una situazione spiacevole, raccontata da una persona che è riuscita ad affrontarla e che oggi vive della propria passione e ne elogia gli aspetti positivi di unione e socialità, agli antipodi rispetto all’immaginario tipico del nerd solitario e senza amici nato dalla necessità delle masse di etichettare abitudini come sbagliate solo perché fuori dagli schemi tradizionali. Coltivare passioni significa crescere con esse e iniziare a comprenderne l’importanza anche negli altri, creando un circolo virtuoso che non può che migliorare il senso di rispetto reciproco nell’intera collettività.