Pensiamo al tempo. Il tempo in sé non è spaventoso: basta saperlo gestire, no? In realtà non è tutto qui. Il tempo è un’entità dalla forza unica e straordinaria. Non siamo noi a controllarlo. Al contrario, siamo in balia di esso, naufraghi nel suo oceano. L’opera conclusiva del mio percorso accademico svolto in Accademia Carrara di Bergamo, «Degli amabili resti», è nata proprio da qui: una riflessione sulla forza del tempo.
Tutto, da quando nasciamo a quando moriamo, è dettato dal ticchettio delle ore. Il tempo si concretizza in diversi modi: cura e cancella, cambia le forme della materia, lo stato delle persone e oblia la memoria. Anche dopo la morte – cosa che ho percepito nel corso del mio lavoro – il tempo non si ferma, anzi, ha la capacità di “far rimorire ciò che è già morto”. Lo osserviamo in primis nella materia, che si rovina a poco a poco. La seconda morte, quella definitiva, si concretizza poi nel momento in cui non vi è più memoria dell’originale. Il tempo fa allora da padrone, cancellando quello che è stato. Quando qualcosa viene rimosso dalla memoria, smette di esistere sotto ogni aspetto e “rimuore”.
Le forme più esplicite di “rimorte” emergono dalla materia abbandonata a sé stessa: case “mangiate” dalla natura, oggetti buttati per strada, fotografie che si sono cancellate, tombe dimenticate e scarti inutilizzati creati dalla società. Praticamente tutto ciò che non viene accudito e di cui si perde il ricordo.
È con dolore e volontà di rivalsa che mi sono soffermata su questo tema. Mi sono chiesta come mantenere viva la memoria, e quindi come combattere il tempo, per non far mai morire davvero qualcosa di caro. Ho scoperto che sta a noi aggrapparci ai ricordi e mantenere il sentimento attivo, come succede quando sentiamo un profumo d’infanzia che ci riporta alla mente una moltitudine di affetti. Serve allenare la sensibilità dello sguardo per poter vedere vite passate che stanno sbiadendo, così da fermare l’azione del tempo e arricchire la propria conoscenza.
Visitando il cimitero di Monterosso nelle cinque terre liguri, ho osservato una caterva di fotoceramiche logore, all’apparenza dimenticate. È stato lì, immersa in vite e materie passate, che ho riconosciuto la brutalità del tempo e ho compreso appieno la mia necessità: fissarle e fermare l’azione del tempo attraverso la semplice fotografia. Nella fotografia io non posso mai negare che “la cosa è stata là”. Vi è una posizione congiunta: di realtà e di passato.
Così mi sono fatta portatrice di altre vite passate e calpestate dal tempo, dando volto a realtà dimenticate proprio attraverso la fotografia. Per me, questo supporto può diventare il mezzo per bloccare lo scorrere del tempo e per creare delle nuove memorie. Nei miei elaborati, e in particolare in «Degli amabili resti», plasmo delle sensazioni private e personali in materia fisica e condivisibile dalla moltitudine. La mia produzione artistica è per me come un medicinale, perché con le mie opere esterno le mie verità, le mie paure e le mie incertezze, con l’intenzione di smentirle e scongiurarle.
Sono quindi partita dalla mera fotografia archivistica – di catalogazione per intenderci. Sentivo la necessità di immortalare più volti e vite possibili, riprendendo nomi, luoghi e date di nascita e morte. Ho iniziato una spedizione in solitaria, visitando i cimiteri del mio cuore: quelli a cui son legata o per locazione o per sepoltura di cari, con l’obiettivo di raccogliere più dati possibili. Sentivo il bisogno di bloccare quelle realtà passate sotto ogni aspetto, fotografando le lapidi, appuntando le loro date o frasi dedicate, le tombe in toto e poi i dettagli e le fotoceramiche nella loro immensa forza.
Una volta raccolti tutti questi dati mi sono presa una pausa; mi sono fermata a guardare, dividere, catalogare e a conoscere l’insieme di immagini e anime raccolte: sì, conoscere, perché effettivamente io non sapevo nulla di quelle vite delle quali mi ero appropriata.
Nonostante la meditazione e la ricerca, però, questo archivio fotografico e scritto “della memoria” non riusciva ancora a darmi sollievo dalla crudeltà del tempo.
Ho lasciato scorrere quasi un anno, un anno in cui ho capito di dovermi addentrare più nell’intimità di queste vite passate. Così ho iniziato le mie seconde spedizioni, sempre in solitaria negli stessi cimiteri da cui ero partita, ma questa volta con uno sguardo diverso, più diretto. Ho cercato di avvicinarmi di più alle fotoceramiche e a guardare da più vicino questi “volti dimenticati”, ritagliando tutto il superfluo e tenendo solo la parte fisica della memoria, quindi la fotoceramica rovinata: il ricordo in corso di oblio.
L’archivio si presentava come una raccolta di fotoceramiche estraniate dalla loro realtà perché prive di definizione (nomi, date, pensieri appoggiati alla lapide) e per assurdo questa operazione mi ha avvicinato a loro. Il puro volto fotografato, per quanto rovinato che sia, ha la capacità di autodefinirsi mantenendo perennemente la propria essenza. I volti sono così diventati per me dei conoscenti, come dei cari.
Mi sono chiesta quindi: come rendere accessibili i miei cari al pubblico? Come non spaventare tutti con il mio archivio della memoria? E come rendere questi volti riconoscibili e assorbibili (quindi poi portati nella memoria) alla maggior parte dei fruitori?
Si dice che sono i dettagli a far la differenza. Quando parlo con qualcuno solitamente presto molta attenzione ai dettagli e alle piccole espressioni del volto, perché credo che siano quelle a darci indicazione di cosa sta realmente pensando o cosa vorrebbe realmente dirci il nostro interlocutore. Nella fotografia ritrattistica, e in primo luogo nelle fotoceramiche funerarie, si è inclini a credere che quella foto sia la “massima espressione” per quella persona, cioè che possa esprimere l’aria della persona ritratta al meglio. Io ci credo, o almeno, mi impongo di credere che ogni caro abbia scelto al meglio la rappresentazione eterna per il proprio defunto.
Coltivando l’archivio della memoria mi sono resa conto però che un solo volto può racchiudere in sé una moltitudine di volti, e sono i singoli dettagli del viso ad offrire questa possibilità. Il dettaglio di un viso scompone lo stesso e crea l’opportunità di riconoscere lineamenti e l’aria di un nostro caro o conoscente nei volti di altri, dapprima sconosciuti.
Quindi, prendendo per assodato che la fotoceramica funeraria sia la massima espressione della persona ritratta, ho iniziato a cercare quei particolari del volto che riuscivano a riportarmi ad altri volti. Perché i particolari, in base alla sensibilità del fruitore, possono creare infinite connessioni. E diventano loro i soggetti dell’archivio della memoria.
«Degli amabili resti», che dal principio è nato con la volontà di essere di conforto e aiuto per chiunque soffra, si è infine concretizzato nel veicolo più diffuso del sapere: un libro, puramente fotografico e per volontà personale a cadenza annuale.
La morte è un tema spaventoso e per questo è solitamente evitato. Racchiude però in sé diverse modalità di conforto, a seconda del punto di vista. Nel mio lavoro, mi sono accorta di come la memoria, semplicemente intesa come capacità dell’individuo di conservare informazioni passate e di servirsene nel presente, possa essere una soluzione al dolore dell’assenza.
Anche se non ci sono più fisicamente, le persone e le cose possono continuare ad esser vive attraverso lo spirito, l’aura e le rievocazioni di esse. Facendosi portatrice di una sorta di immortalità “immateriale”, la memoria può diventare utile come sistema di difesa, come aiuto e principio di non sofferenza per le persone in vita. Un aiuto già adoperato in molte parti del mondo.
(Tutte le foto sono di Chia Betelli)