L’intervista a don Gino Rigoldi: «Il carcere costruisca futuro»

L’INTERVISTA. Don Gino Rigoldi, «storico» cappellano del «Beccaria»: «La detenzione offra opportunità, altrimenti fa morire la speranza. Lavoro e relazioni per evitare le recidive».

Una vita dentro il «Beccaria» di Milano per essere al fianco dei giovani detenuti che per le tristi vicende della vita finiscono in carcere. Lì è stato nominato cappellano nel 1972 e lì c’è ancora, anche se da qualche mese don Gino Rigoldi - classe 1939 - ha rassegnato le dimissioni per lasciare il posto a don Claudio Burgio, un amico più che un collega, con cui da diciotto anni si occupa dei problemi delle carceri e si interroga su cosa fare per dare agli istituti di pena un minimo di umanità. Promotore di moltissime iniziative e altrettanti progetti, don Rigoldi è considerato da sempre un «faro» quando si parla di carceri, di detenuti e dei problemi in cui il sistema penitenziario del nostro Paese annaspa ormai da anni. Dopo l’approvazione del decreto carceri da parte del governo, è a lui che abbiamo chiesto di tracciare «lo stato dell’arte» del sistema carcerario italiano.

Leggi anche

Sovraffollamento, condizioni igieniche discutibili, oltre 60 suicidi dall’inizio dell’anno ad oggi, tra cui anche alcuni agenti di polizia penitenziaria… Da dove cominciamo a parlare delle carceri italiane?

«Cominciamo dall’inizio. Se si vuole modificare la situazione nelle carceri italiane bisogna mettere mano ad una circolare del 2022, andata in esecuzione sei mesi fa, in cui si prevede che i detenuti possono stare fuori dalla cella solo se hanno specifiche attività da svolgere in carcere o al di fuori dal carcere, altrimenti si esce dalle celle soltanto per l’ora d’aria del mattino e per quella del pomeriggio, altri momenti al di fuori dalla cella non ne sono previsti. Ma in molte carceri italiane, soprattutto in quelle strapiene, le attività da fare praticamente non esistono. Vuol dire che ci sono migliaia di detenuti che trascorrono 22 ore al giorno in cella a far niente. Questo modo di agire, a mio modo di vedere, si chiama tortura. Abbiamo protestato come cappellani delle carceri della Lombardia, sottolineando che è una cosa indegna, ma ci è stato risposto che non sono cose che ci riguardano. Già sospendere questa misura - con una decisione che sarebbe solo di buon senso - equivarrebbe a creare un certo benessere all’interno delle carceri. Alcuni direttori si rendono conto della gravità della situazione, perché sanno benissimo che queste cose possono essere i prodromi o di una rivolta oppure di atti di autolesionismo, e dunque si inventano di tutto per autorizzare le uscite, ma la situazione è davvero dura».

Nemmeno dal punto di vista igienico-sanitario le carceri del Bel Paese brillano…

«Quello legato agli aspetti sanitari è un altro problema molto serio. Basta andare in alcuni istituti di pena - parlo della Lombardia, non del Terzo Mondo, e non dico quali per rispetto dei colleghi - dove contrarre la scabbia è all’ordine del giorno: ci sono pulci, cimici e chi più ne ha, più ne metta. E qual è l’idea brillante per risolvere il problema? Quella di ristrutturare le carceri, l’idea più stupida che si possa avere. Prendiamo ad esempio il “Beccaria”: ci sono voluti 15 anni di lavori, sono stati spesi decine di milioni per far qualcosa che è già vecchio. Le carceri pidocchiose, piene di scarafaggi e di parassiti, che costituiscono un problema di carattere sanitario enorme, oltre che essere una cosa disumana e indegna per un Paese che si dice civile come il nostro, devono essere rase al suolo e, al loro posto, vanno costruiti palazzi con tutte le garanzie del caso, ma dove sia possibile vivere in maniera decente, sia sotto l’aspetto sanitario sia sotto quello dell’affollamento».

In attesa di carceri nuove e più umane, cosa si potrebbe fare?

«Un aspetto di cui non si tiene conto è che in Italia esistono carceri dove la percentuale di recidiva, cioè di reingresso in cella dopo aver scontato la pena, è del 75 - 80%, e altre dove la percentuale è solo del 20-25%. Perché simili disparità? Perché dove si costruiscono percorsi che possano dare un futuro a chi sta temporaneamente in carcere, si consente al detenuto di reagire, di tornare a sperare a una vita diversa quando sarà uscito dalla cella, si favorisce l’attivazione di processi virtuosi che gettano un ponte verso il mondo fuori dal carcere. Se invece il carcere è un portone che si apre quando entri e si chiude alle tue spalle quando esci, allora non serve a niente, se non a togliere la speranza a chi tieni dentro. Se cominciassimo a puntare seriamente su formazione e lavoro, la situazione migliorerebbe sensibilmente in tutte le carceri. Un po’ come stiamo facendo ad Opera, ad esempio, dove abbiamo dato vita ad una sorta di modello per la formazione di muratori. Abbiamo fatto un accordo con la Assimpredil Ance a cui proponiamo gruppi di 15 detenuti, che l’impresa si impegna a formare, e che vengono assunti a tempo determinato, in modo che possano restare fuori dal carcere dalla mattina alla sera per lavorare, per poi rientrare in cella per dormire. Così facendo inserisci nelle carceri meccanismi di futuro; se invece non fai nulla, non fai altro che stimolare il “replay” di quanto già avvenuto, e favorire dunque la reiterazione del reato per cui si è finiti in carcere. Lo ripeto, è necessario introdurre forme di uscita dal carcere più veloci, almeno per chi ha già scontato un terzo della pena, valorizzando iniziative come quella promossa con Assimpredil Ance, sfruttando l’articolo 21, formando detenuti che possano poi lasciare il carcere per andare a lavorare. Con il gran bisogno di manodopera che c’è, stringere un’alleanza con il mondo dell’impresa in questa direzione sarebbe estremamente importante. Il tema della formazione all’interno del carcere, finalizzata ad un lavoro, deve essere rivisto e rilanciato, altrimenti si rischia di proporre iniziative che fanno solo trascorrere il tempo, ma senza dare un futuro a nessuno».

E per gli istituti che ospitano i minori?

«Per loro sarebbe bellissimo inserire un articolo 21 “educativo”: se va bene lasciare il carcere per andare a lavorare, perché non potrebbe essere lo stesso per andare a studiare, a far musica, a fare tutte quelle attività che possano accompagnare i ragazzi ad essere quegli adolescenti che dovrebbero essere ma che non sono? Non è previsto, ma quel che non accade lo si può sempre far accadere…».

A proposito di minori, c’è proporzionalità tra i reati che commettono e le pene a cui vengono condannati?

«Quello del tipo di reati compiuti da chi è detenuto è un altro tema di cui si parla poco quando ci si occupa di carcere. Al “Beccaria”, ad esempio, nella stragrande maggioranza dei casi abbiamo ragazzini che hanno commesso reati legati alla sopravvivenza, legati cioè alla necessità di raccattare dei soldi semplicemente per poter mangiare. Perché avviene questo? Perché a Milano sono arrivati moltissimi di questi ragazzi, ma il Comune riesce ad accoglierne solamente 5 o 600, mentre tutti gli altri vivono in strada, cercando di sbarcare il lunario come possono. Questo non vuol dire ovviamente che sono autorizzati a strappare le collanine alle ragazze o a rapinare il cellulare a chi è al telefono, ma indica la necessità di intervenire con proporzionalità nell’infliggere le pene. Conosco un ragazzino che ha partecipato, con un gruppo di coetanei, alla rapina di una collana ad una ragazza; non l’ha strappata lui - la collana -, l’ha raccolta una volta caduta per terra e l’ha messa in tasca, ma gli agenti l’hanno trovata addosso a lui. Com’è finita? Con 5 anni di detenzione, a soli vent’anni e al primo reato: non c’è commisurazione tra reato, pena e soprattutto persona. Certo che non si può rapinare, certo che le rapine e i furti sono reati, ma questa è gente che ha bisogno di mangiare. Comprende di aver sbagliato, ma non capisce una sproporzione così netta tra ciò che ha fatto e la pena che deve scontare. Non si possono riempire le carceri di situazioni come queste: è disumano».

Ma come si sta nelle carceri minorili e nelle comunità destinate ai minori?

«I problemi non mancano, sia negli uni sia nelle altre, che dovrebbero accogliere i minori che hanno commesso alcuni reati. Non è che le comunità siano il paradiso, ma sono un percorso importante per la rieducazione di chi ha sbagliato. Il problema è che le comunità sono strapiene. E non perché sono troppi i giovani che dovrebbero esservi accolti, ma perché nessuno ha mai pensato al “tappo” che si crea una volta che questi ragazzi raggiungono la maggiore età, quando magari sono riusciti ad imparare un mestiere e vorrebbero sperimentare un po’ di autonomia, andare a vivere per conto proprio, perché sono stanchi di stare in comunità. Ma c’è il problema della casa “dopo”: chi gliela dà? Con me vivono dieci ragazzi, ma almeno quattro o cinque sono stanchi di vivere in gruppo, vorrebbero sperimentare una propria autonomia, ma chi si occupa di questo problema? Nessuno, dunque continuano a restare in comunità, contribuendo a renderle strapiene».

Ma c’è qualcosa che è stato fatto bene per il nostro sistema carcerario?

«Questo governo una cosa buona l’ha fatta: la nomina dei direttori. C’erano delle carceri, come ad esempio il “Beccaria”, dove il direttore mancava da vent’anni. Certo, c’erano dei supplenti che però dovevano badare a due o tre carceri, il che vuol dire non riuscire a gestirne nemmeno uno o quasi. Adesso invece ogni carcere ha un proprio direttore e questo è un bene. Il direttore di un carcere è re e imperatore, però se è una persona positiva, costruttiva, ha la capacità di vedere i problemi e di immaginarsi delle soluzioni. Si stanno nominando anche i comandanti degli agenti penitenziari, e pure questa è una cosa buona, perché la figura del comandante è fondamentale per formare, organizzare e sostenere al meglio il delicato lavoro degli agenti».

A proposito degli agenti e della loro formazione, non trova sia carente in proporzione a ciò di cui si devono occupare? Mi viene un parallelismo con l’infermiere, figura professionale che si occupa del benessere e della salute delle persone, e che oggi ha una laurea. Perché un agente penitenziario non deve avere un percorso di formazione simile? Anche lui ha a che fare con la vita e il benessere delle persone, anche se sotto altri aspetti. Non sarebbe anche una garanzia a tutela di tutti, detenuti e agenti?

«Questo sarebbe un sogno, un bellissimo sogno, anche perché sono proprio gli agenti a stare a stretto contatto con i detenuti per il maggior numero di ore. Gli educatori vanno e vengono, ma gli agenti devono restano per almeno sei ore. Fino a poco tempo fa la normalità era che ci restassero otto ore, e, a volte poteva accadere che le ore diventassero dieci, dodici o quattordici. Io con i ragazzi ci sto volentieri, ma dopo tre o quattro ore ho anche voglia di andarmene via; gli agenti, invece, devono starci per molto più tempo, e non è semplice. La formazione che auspica lei semplicemente non è a tema, anche se è vero che gli agenti dovrebbero avere una formazione molto più specifica dell’attuale, perché oggi hanno poche competenze rispetto al compito che devono svolgere. Al “Beccaria”, ad esempio, molti agenti vengono dal Sud e sono giovani in cerca di un lavoro fisso. Vengono formati piuttosto velocemente, in modo un po’ generico, e poi vengono subito inseriti nell’organico, con le conseguenze che ne derivano, tra cui l’impossibilità di creare una vera leadership nei confronti di detenuti, alcuni dei quali hanno la loro stessa età. Oltre al tema degli orari di lavoro e della formazione, anche per gli agenti esiste il problema del sovraffollamento, perché spesso uomini e donne sono ammassati dentro locali inadeguati per tutti, senza nemmeno l’aria condizionata. Anche queste situazioni contribuiscono a creare quel clima all’interno del quale poi accadono cose sgradevoli, come quelle di cui le cronache si sono occupate nelle scorse settimane».

Il tema dei suicidi in carcere sta assumendo dimensioni decisamente preoccupanti. Davvero non è possibile far nulla?

«In primis, il problema dei suicidi è legato alle pessime condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere, a cominciare dal sovraffollamento e dal dover trascorrere in cella 22 della 24 ore di cui è composto il giorno, il che non aiuta certo a mantenere una corretta sanità mentale. In carcere i detenuti con problemi psichici e psichiatrici border line non mancano, e verso questi soggetti è certamente necessario mantenere un’attenzione più alta e avere nei loro confronti un atteggiamento diverso, anziché rinchiuderli semplicemente in isolamento quando “esplodono” in episodi di pazzia. A volte ho l’impressione che i detenuti con questo tipo di problemi vengano trattati più come animali da condurre al pascolo senza troppi sbandamenti piuttosto che come essere umani».

Non servirebbe un nuovo umanesimo per le carceri?

«L’umanesimo più semplice sarebbe un “addestramento” a credere a quel comandamento che ci diede Gesù Cristo: “Vi comando di volervi bene”, offerto a tutti come una sorta di percorso da seguire. In quest’ambito sottolineerei un’altra urgenza non di poco conto dal mio punto di vista: avere anche degli imam dentro le carceri per adulti, perché l’iman è il prete dei musulmani, e quando i detenuti musulmani ricominciano a pregare, a “ricollegarsi” con la loro religione, a mantenere gli impegni e le scadenze che la loro religione prevede, cambiano sensibilmente. Anche incrementare la loro fede all’interno delle carceri è motivo di ordine e di serenità. Io adesso sono “emerito”, ma come cappellani del “Beccaria” siamo sempre stati alla rincorsa di una comunità aperta a tutti, cattolici e musulmani. Così è nata la “non Messa”, una preghiera a cui partecipano anche i fedeli della parrocchia vicina al carcere e un gruppo di giovani detenuti di fede musulmana. È un’esperienza pilota, un’esperienza per cercare di creare una relazione, per non lasciarli soli. Noi ci siamo sempre adoperati per mettere in campo una grande azione educativa, più sul versante del comportamento che su quello religioso, del predicare la nostra fede, anche se insistiamo in continuazione sull’importanza del perdono. Vedrei bene l’introduzione di un nuovo umanesimo, in maniera massiccia, nella formazione degli eventi da vivere in carcere, i quali, a loro volta, possono essere trasmettitori di nuovi valori di umanità all’interno del carcere stesso. Credo che alla fine sia anche un bisogno della stessa società».

Il Cardinal Martini diceva che «il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio in cui emergono le contraddizioni e le sofferenze di una società malata». Mi pare una definizione perfetta.

«Sì, certamente. Il Cardinal Martini era particolarmente attento al tema del carcere. Io ho un sogno: che finalmente si capisca che l’educazione ha un nome: si chiama relazione, e la relazione è il punto di partenza del volersi bene. E vorrei che questa idea la coltivassero i preti, i direttori degli istituti religiosi, i professori, l’intera comunità educante. Perché quando io chiedo a un gruppo di insegnanti, al rettore di un grande istituto cattolico, a un gruppo di parrocchie oppure alle scuole professionali qual è il vostro progetto educativo, mi rispondono balbettando. Non sanno niente, confondono la buona educazione, le buone maniere, con l’educazione, ma non è certo questa l’educazione di cui parlo. Perché ci dimentichiamo che dietro i ragazzini che delinquono ci sono sempre storie disastrate, familiari, sociali, economiche, culturali. Sempre. E c’è sempre un uomo dietro ogni storia».

Non trova che una certa classe politica che continua a istigare il Paese sul tema della sicurezza abbia una qualche responsabilità sulla situazione delle carceri oggi?

«Sì. E soprattutto a me pare che, ancor prima, ci sia un vizio di fondo: l’ipocrisia di chi magari abita a Milano e va a vedere quartieri come Baggio, come San Siro, come Quarto Oggiaro, come Lambrate, per poi sollevare il tema della sicurezza. O è stupido oppure è in malafede. Basta vedere quanti ragazzini vivono in strada a Milano, quante sono le case occupate a Milano, quanto sia impossibile per una famiglia straniera, anche se guadagna tremila euro al mese, trovare un’abitazione. “San Siro è un disastro” dicono, poi va lì un sacerdote che con i ragazzini se la cava bene e in qualche mese organizza 12 squadrette di calcio e ora i ragazzini sono lì che giocano a pallone anziché essere in giro a rubare: erano semplicemente abbandonati dentro un contesto para-delinquenziale. Quelli che parlano della sicurezza dovrebbero prima garantire a tutti la possibilità di avere una casa, una scuola, una sopravvivenza economica. Fa alla svelta chi sta bene a sputare su quelli che stanno male...».

Si preferisce parlare alla pancia della gente piuttosto che al cervello.

«Sì, certo. E poi, tutto sommato, quando dici che un altro è cattivo ti senti un po’ meglio anche tu. È un bel modo per alimentare il partito della forza, solo che il partito, a suo modo, fa politica, mentre il cittadino fa il gradasso».

Bisognerebbe educare anche i politici?

«Beh… mi sembra impossibile. Non dico sia impossibile a Dio, ma credo che se ci si mettesse, farebbe una gran fatica pure Lui».

È vero che nel carcere si uccide la speranza?

«Direi che il tema si pone nelle carceri per gli adulti, non in quelle per i minori. I minori, che peraltro in carcere non ci stanno molto, hanno sempre il desiderio del cambiamento, sono sempre sollecitati dagli educatori alla ricerca della comunità e hanno molta più energia. Per gli adulti è diverso. Dopo un anno o due di carcere, il detenuto adulto non pensa più a niente, non pensa più al proprio futuro, non è più interessato a nulla. Si, gli adulti sono quelli che soffrono di più».

Cosa pensa della giustizia riparativa?

«È un tema lontanissimo. È certamente un ideale da perseguire, ma adesso siamo impegnati a sopravvivere. Quando la situazione si sarà stabilizzata, con carceri meno affollate, più umane, con personale e formazione adeguate ai bisogni, con risposte diverse dalle attuali ai reati “per la sopravvivenza”, allora potremo pensare di investire anche su questo tema, che è sacrosanto, ma per il quale oggi non abbiamo le forze necessarie».

Cosa pensa della decisione del Papa di aprire una porta Santa in un carcere per il prossimo Giubileo?

«È senza dubbio una scelta meritevole, un simbolo estremamente positivo, che aiuta a far riflettere chi al carcere non pensa mai, ma non la caricherei di grandi attese, almeno per quel che riguarda le carceri da Roma in su, dove la maggior parte dei detenuti sono stranieri, mediamente arabi. Da Roma in giù sono invece in maggioranza cristiani, e lì - allora - ha un senso riflettere sull’indulgenza plenaria prevista dal Giubileo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA