Possono dei disegni ridefinire gli spazi e le forme di una città? Possono sguardi diversi far emergere bisogni e contraddizioni del territorio urbano? Sì, secondo Nausicaa Pezzoni, architetto e urbanista (nonché docente del Politecnico di Milano e funzionario della Città metropolitana di Milano) che, presso il Teatro Qoelet e in dialogo con Francesca Nilges (responsabile dell’area di neuropsichiatria infantile della cooperativa sociale Aeper), interverrà, alle ore 20.45 di giovedì 3 aprile, a «Geografie dell’imprevisto. Mappare futuri desiderabili» , incontro organizzato dal gruppo Aeper all’interno del festival «Prossimi futuri».
FR: Viviamo l’epoca, citando Bauman, della «modernità liquida», in cui l’uomo pare essere sempre più sradicato dai luoghi (e dalla comunità) in cui è nato e cresciuto. Ha quindi ancora senso, oggi, il verbo «abitare»?
NP: L’abitare contemporaneo è diverso dall’abitare di qualche decennio fa. La città è attraversata, sempre più spesso, da popolazioni in movimento e la società non è statica e routinaria come un tempo: ormai non rispecchia le abitudini e i ritmi di vita delle persone per le quali, in epoca moderna, era stata pensata e progettata. La sfida, dunque, sta nel domandarsi quali strumenti possiamo utilizzare, come urbanisti, per rispondere alle esigenze di una società che non è più esclusivamente stanziale.
FR: La pandemia di Covid-19 ha cambiato il nostro rapporto con l’abitare e con la città?
NP: Sì. Spesso, ai miei studenti, faccio vedere le immagini delle città durante il lockdown, completamente deserte. In quei mesi, la città ha cambiato la sua natura, diventando quello che normalmente non è, ovvero un posto pressoché disabitato e l’umanità, per la prima volta nella propria storia, ha vissuto i luoghi allo stesso identico modo. Quel vuoto ha cambiato sensibilmente anche la percezione dello spazio. Sono infatti emersi spazi a cui prima non si faceva troppo caso, così come hanno preso vita dall’anonimato nuove popolazioni urbane, come i rider: un gruppo sociale che esisteva da anni, ma della cui presenza non ci accorgevamo veramente fino in fondo.
FR: Durante la serata di giovedì, parlerà della sua indagine, «La città sradicata». Di che cosa si tratta, esattamente?
NP: È un’indagine che nasce all’interno del mio dottorato di ricerca in «Governo e progettazione del territorio», svolto presso il Politecnico di Milano qualche anno fa; l’indagine si sforza di comprendere le dinamiche che contraddistinguono l’abitare contemporaneo e la sua transitorietà, una transitorietà che l’urbanistica attuale non contempla, tanto meno per quanto riguarda il welfare. Il metodo con cui ho condotto questa ricerca si ispira al lavoro di Kevin Andrew Lynch, urbanista e architetto statunitense che, con il libro «L’immagine della città», illustra come i frequentatori delle città percepiscano lo spazio urbano e come organizzino ed elaborino le informazioni spaziali che ricevano durante le loro esperienze. Lo strumento per fare ciò (che ho attualizzato) è quello della «mappa mentale», costituita da cinque elementi: percorsi (strade e altri canali, utilizzati dalla gente per spostarsi), margini (confini e limiti, come mura, edifici o spiagge), quartieri (sezioni relativamente larghe della città, contraddistinte da una propria identità), nodi (punti focali della città: d’incontro, per esempio) e riferimenti (punti di orientamento). Ho dunque chiesto ai migranti di disegnare una mappa di Milano. Il risultato sono state cento mappe del capoluogo lombardo che hanno svelato quelle dimensioni dell’abitare e delle geografie urbane che le mappe tecniche non riescono a rappresentare. Questa è la città «sradicata»: una rappresentazione che si sviluppa completamente da quella consueta, che, spesso, crediamo essere l’unica (e reale) raffigurazione del territorio. Del resto, le immagini di una città sono tante quanti sono gli occhi che la osservano ed esse prendono forma anche in relazione al gesto estetico di chi le rappresenta. Per questo, mi piace pensare che le mappe mentali non siano dei semplici disegni ma delle vere e proprie poesie. Da questo progetto, ne è scaturito anche un altro: «I migranti mappano l’Europa»; una proposta per l’Europa affinché possa provarsi a rappresentare da un altro punto di vista. Ne è anche nata una mostra itinerante.
FR: Durante la serata, lei dialogherà con Francesca Nilges, responsabile dell’area di neuropsichiatria infantile di Aeper. Qual è il filo rosso che lega urbanistica e salute mentale?
NP: Capita, a volte, che il migrante, più o meno inconsapevolmente, attraverso la mappa mentale faccia emergere gli eventi traumatici che ha vissuto. La mappa funge da medium, se così si può dire, rendendo evidente (e quindi elaborabile) un eventuale episodio esperienziale di violenza. Il mio lavoro, del resto, desidera conciliare l’esigenza tecnica con la volontà di accompagnare all’esplorazione di un determinato spazio chi, partendo da una condizione socialmente svantaggiata, in questo spazio vorrebbe trovare quel senso di appartenenza e di inclusività che non possiede o che non gli è stato ancora riconosciuto.
FR: Cosa bisogna fare affinché una città sia davvero inclusiva?
NP: Disegnare spazi che siano accoglienti, così che possano conciliare l’incontro fra le diverse categorie di abitanti e soddisfare i bisogni di una molteplicità di soggetti.
FR: La politica, a volte per meri fini propagandistici, parla spesso di sicurezza. Ci può essere accoglienza e allo stesso tempo sicurezza?
NP: Io penso che dove ci sia accoglienza ci sia anche sicurezza. Le tensioni e le conflittualità si sgretolano se si vive in luoghi inclusivi che, come già accennato, riescono a dare risposte concrete alle esigenze di una molteplicità di soggetti. Se le persone si sentono rassicurate e supportate, anche le contrapposizioni vengono meno.
FR: Ci sono città che assomigliano sempre più a dei duty-free shop a cielo aperto. Impossibile non pensare a Marc Augé e al suo concetto di «non-luogo» …
NP: Alcune parti di città, soprattutto quelle più turistiche, stanno diventando tutte uguali perché contrassegnate dalle attività commerciali: i diversi marchi si propagano a tutte le latitudini, senza differenze e senza nessuna declinazione contestuale specifica. Le forme con cui si occupano gli spazi sono sempre più omologate e tutto ciò a discapito dell’eterogeneità e delle particolarità culturali dei luoghi. Fra le cause, i processi di gentrificazione e la graduale espulsione degli abitanti storici (soprattutto quelli meno abbienti). La ripetizione non fa altro che incrementare disumanizzazione e senso di non appartenenza.
FR: C’è qualcosa che le città, spesso, anche solo per la distrazione di chi le attraversa, celano agli occhi di chi le vive?
NP: C’è uno strato urbano che spesso viene ignorato dai più. È quello popolato da chi sperimenta la precarietà, da chi vive ai margini della società e deve trovare delle soluzioni inedite all’abitare.
FR: Milano è bella o brutta?
NP: Bella, senza dubbio.
FR: Qual è la sua idea di città del futuro?
NP: Accogliente e aperta, capace di lasciarsi liberamente rappresentare da tutti coloro che siano disposti ad abitarla.