Nessuno può dirsi pronto a una malattia, nemmeno se la conosce da sempre. Quando arriva, ci si trova impreparati e un futuro che sembrava lontano diviene d’un tratto presente. È quello che succede con il morbo di Alzheimer, un nemico subdolo che è entrato nella mia vita una decina di anni fa e che, a poco a poco, si è portato via la coscienza di mio nonno Sergio costringendo mia nonna Giuseppina a stravolgere la sua vita.
Non se lo immaginava nessuno di noi, vista la propensione di mio nonno per lo sport e il suo legame indissolubile con la bicicletta. A tradirlo, è stata proprio la sua Colnago costruita su misura, che improvvisamente lo ha disarcionato di sella. Era già successo nel 2003 e aveva comportato una rottura di bacino. Mio nonno allora si era rialzato, dopo una lunga riabilitazione in una delle estati più calde della storia. Me lo ricordo ancora: avevo sei anni, lui era su un lettino nello studio con il gesso che copriva buona parte del suo corpo, cosa che mi colpiva particolarmente.
Questa volta, alla caduta senza particolari conseguenze è seguito un improvviso vuoto di memoria, difficile da spiegare visto che mio nonno teneva conto puntigliosamente di tutti i chilometri percorsi su un piccolo taccuino nascosto in cucina, fra i piatti da utilizzare per gli ospiti. Lì per lì abbiamo soprasseduto, ma qualche mese dopo è arrivata una nuova caduta senza apparente motivo. Stavolta è successo tutto davanti agli occhi di mia nonna, la “Pina”, che da oltre mezzo secolo gli sta vicino. Non poteva essere un banale inciampo su un marciapiede in riva al mare: doveva per forza essere qualcos’altro.
Agli accertamenti medici è seguita la diagnosi di Alzheimer, un male che – come abbiamo capito fin da subito – piano piano erode dentro, cancella i ricordi e mischia quelli che rimangono. Questo è stato probabilmente l’aspetto più difficile da accettare, non tanto per me nipote che, essendo ancora giovane, mi ci sono abituato pian piano, ma soprattutto per mia nonna, abituata a sentire quel grido potente che richiama l’attenzione della “Pina” e che ora svanisce nelle parole sempre più complicate da pronunciare.
A consentire a mia nonna di andare avanti non è tanto la pazienza che a volte (comprensibilmente) le scappa, oppure quella determinazione che l’ha resa celebre, ma un amore che non ho mai ritrovato in nessun altro. Posso elencare tanti piccoli gesti: il suo alzarsi in piena notte per tranquillizzare il nonno, che vuole uscire di casa semplicemente perché pensa che sia l’ora di alzarsi e di andare a lavorare, o si affaccia nel bel mezzo di un temporale invernale dal balcone. Oppure il tentativo di spiegargli a pranzo come sia molto più semplice raccogliere il cibo con una forchetta e mangiare pochi bocconi piuttosto che farlo cadere dal tavolo.
Vedere in prima persona o sentire anche soltanto il racconto dalla viva voce di mia nonna mi ha segnato. Ho imparato come l’amore sia più duraturo di qualunque fotografia. Più di quella in salotto, dove appaiono loro due insieme ai figli in occasione del cinquantesimo anniversario di matrimonio, uno dei pochi momenti felici della malattia di mio nonno. Più di quelle foto ingiallite che un pomeriggio mia nonna ha deciso di sfoderare dall’album nuziale per cercare di convincere mio nonno che sì, ha una moglie, e che sono passati quasi cinquantasei anni da quel 13 maggio all’altare del Santuario della Madonna di Prada di Mapello.
In quelle istantanee compaiono numerose persone di cui fatico anche solo a ricordare il nome. Sono quasi tutte scomparse, ma rappresentano u n ultimo appiglio per aiutare mio nonno a ritrovare un barlume di memoria. I genitori, i suoceri, gli zii, i cognati, le sorelle: immagino quanti ricordi possano passare nella mente della nonna, mentre il nonno invece non riesce a individuare nulla. Eppure, quando ogni tanto capisce di avere accanto la persona che ha sempre amato, lascia un piccolo bacio sulla fronte della “Pina”. È un atto che può apparire scontato e meccanico, ma che per me ha sempre avuto un immenso valore.
Quando dicevo che un nipote può adeguarsi alla condizione di un parente, penso che lo stesso non possa dirsi per una compagna di vita come mia nonna. Lei è ostinata a non arrendersi ed è bravissima a trasformare la rabbia che ogni tanto la assale nella voglia di salvare chi le è rimasto accanto, anche quando non sembra esserci più nulla da fare.
Mia nonna Pina, insomma, mi ha insegnato a non mollare. Lei rimane sempre in piedi, nonostante le gambe cedano e l’età si faccia sentire. Mantiene i nervi saldi e continua ad avere quel dono che a me manca: la pazienza. Anche quando non sa più cosa fare e vorrebbe solo che finisse l’incubo che qualche anno prima vedeva come molto lontano, anche quando suo marito inconsciamente la allontana e lei prova dolore in solitudine. Nonna Pina mi dimostra ogni giorno che pazienza e resilienza possono aiutarci ad affrontare i pericoli della vita, sia che siamo sia che non siamo pronti.
Il suo insegnamento è ovviamente condito da un amore incrollabile, che vedo riassunto nel gesto di ripercorrere i nomi dei parenti nelle foto del matrimonio, oppure nell’indicare i volti dei figli racchiusi in una cornice in salotto. Da mia nonna, ho imparato che essere a conoscenza di una malattia non ci aiuterà a combatterla, ma donarsi totalmente a qualcun altro ci permetterà di affrontarla con più forza.